Nella New York Public Library come At Berkeley, nella National Gallery come nelle strade di Jackson Heights, tornando indietro e indietro, sino alla Northeast High School di Philadelphia o ai corridoi del Bridgewater State Hospital di Titicut follies… il filo rosso che unisce ogni singola inquadratura di Frederick Wiseman è quel raccordo (im)possibile da cercare tra lo schermo e la vita. I protagonisti dei film di Wiseman siamo noi: individui immersi nella collettività che creano l’istituzione di diritti e di doveri.
Capita che alcun i film ritornino alla mente, in quello strano limbo tra memoria e sogno (e del resto, anche il sogno non si vive realmente, si ricorda soltanto) in cui le immagini persistono a prescindere dalla nostra volontà. Ad esempio, girando fra i padiglioni dell’Arsenale ci si imbatte in Grotta Profunda, Approfundita di Pauline Curnier Jardin, videoinstallazione (“a body for a film” recita la didascalia di presentazione di questo work in progress che dura da sei anni) che già nel suo allestimento è, con presuntuosa e tenera ingenuità, una reminiscenza della caverna platonica.
Non ho resistito più di un’ora in Darsena per My Love di Kechiche (in concorso): è da un po’ che non sopporto più la stoppa, il ristagno cinematografico dentro i dialoghi serrati; forse è un mio problema, un desiderio di campi lunghi, silenzi, apnee d’opale. Resta il filmare ossessivo (splendido) dei culi, un inno alle natiche che tracimano dai pantaloncini; una certa sensibilità nello scegliere e filmare la bellezza femminile; poi una bellissima sequenza di ballo su musiche dell’Orchestre Nationale De Barbes, sempre fissa sui culi stipati in vestiti estivi.
«Il loro malessere cresceva al calar della sera…si sentivano distratti, sviati proprio al margine del sogno. In verità partivano per altri lidi: rotti all’esercizio che consiste nel proiettarsi fuori da sé»
(Jean Cocteau, I ragazzi terribili)
Una dossologia del vento che si trasforma in acqua, prima odore, poi sparizione. Drift non è un racconto e se lo è esso è solo l’inizio di una leggenda raccontata dentro i bordì di un cafè e di due donne - Josephine e Thereza - che ad un certo punto si separano e tutto ciò che accadrà dopo sarà solo l’inizio di un viaggio, attraversando l’oceano, annullando confini, limiti, parole. Drift è sguardo che conduce, ipnosi o movimento allucinato del mare che annienta, dissolve, si lascia attraversare.
La cura maniacale del dettaglio di alcuni registi è pari a quella per l’ordine tipica delle casalinghe: esse vedono la loro casa come un set in cui ogni cosa ha il suo posto, ogni collocazione ha un senso, e questo senso deve essere intellegibile attraverso la sua armonia. Una volta allestita la casa-set, tutto è pronto per la messa in scena dello spettacolo quotidiano (un drammone sentimentale, un massacro familiare, una commedia nera, poco importa), ma ecco che si palesa l’incubo del regista casalingo, ovvero che nulla vada secondo i piani: tanto lavoro, infinite cure e attenzioni, e poi magari qualcosa inizia a non andare per il verso giusto (piccole cose, come bruciare la colazione o fulminare una lampadina), dopo avvengono le prime liti, i dissapori, la tensione cresce e gli errori aumentano, immancabile arriva anche un incidente grave e, come accade secondo il classico effetto palla di neve, tutto va a rotoli nel peggiore dei deliri possibili e deflagra in un clamoroso disastro: non si salverà nulla, se non la voglia di tentare ancora.
«Sapere di essere, per quanto debolmente e in modo fallace, al di fuori di me, un tempo mi aveva commosso. Si diventa selvaggi, per forza. A volte c’è da chiedersi se siamo sul pianeta giusto. Anche le parole ci abbandonano, figuriamoci».
(Samuel Beckett, Lo sfrattato).
«Los versos del olvido parla della necessità etica di ricordare il passato e resistere alla violenza dell’oblio come forma di riscatto personale. Una riflessione sulla politica della memoria». È lo stesso regista, Alireza Khatami, a indicare la rotta di un film che procede come un percorso di stazioni lungo la linea delle celle mortuarie di un remoto obitorio disperso tra “il nulla e l'addio”.
First Reformed di Paul Schrader (in concorso) resta tutt’ora, anche dopo aver visto stamattina Three Billboards Outside Ebbing, Missouri di Martin Mcnonagh (che è un gran film), la cosa migliore di questo festival e comunque uno dei film più belli degli ultimi anni. Un lirismo essenziale, esatto, fatto di corpi dolenti, ruvidi, che si aggrappano l’uno all’altro, si mettono uno sopra l’altro stando attenti a non sfregarsi, per non farsi più male, sormontati all’improvviso da uno scroscio di capelli profumati, da cui inizia un viaggio tra nebulose e costellazioni, fino a degradare poi alla terra, fanghiglia, miasmi. Randagi della vita, il reverendo Toller e Mary, stagliati con gli occhi sgranati nel freddo, bianco ecclesiale, che subito diventa l’America al tempo di Trump, concussa, bellicosa, defecante scorie sulla crosta terrestre.
Difficile stabilire, senza essere accusati di dispotismo moralista, il limite fra quel che può e non può essere visto o rappresentato. Il limite ha però lo scopo di garantire una distanza tra colui che guarda e l’oggetto della visione. Paravel e Castaing-Taylor decidono, nel loro Caniba, di porre la telecamera vicinissimo al volto del cannibale protagonista, raggiungendo il limite (e a volte superandolo) della possibilità della visione, in una sorta di effetto “eyes wide closer”: più si avvicina lo sguardo al soggetto più questo, superato il limite di messa a fuoco, tenderà a sparire e a liquefarsi in macchia, alone, evanescenza sullo schermo.
Più una presenza olografica che una figura oleografica, un corpo che forza la sua bidimensionalità nella sagomatura sfuggente del suo essere assente a se stesso. Don Diego de Zama risuona nel film di Lucrecia Martel come uno spettro visivo che staziona fuori luogo nel Paraguay del XVIII Secolo, marionetta di un potere coloniale che lo ha dimenticato lì, disperso nell’attesa di un ritorno a Buenos Aires che non arriverà mai. Assenza perfettamente coerente col cinema della Martel, interamente costruito sulla distanza che separa il tempo vissuto e lo spazio abitato dai suoi personaggi in una divaricazione fluida, acquatica, dell’essere dall’esserci.
«Siamo in tempi d’emergenza» ci diceva tempo fa Gualtiero De Santi, «dunque serve anche dotarsi degli strumenti necessari, […] in senso intellettuale e culturale, ma anche di indispensabile militanza civile». La più incalzante delle urgenze è quella dei nuovi flussi migratori che le recenti scritture della catastrofe raccontano come se si trattasse di una cellula tumorale sull'orlo di metastizzare il cosiddetto primo mondo. È necessario dare voce allo scompenso, ma altrettanto indispensabile farlo riuscendo a smontare le strategie retoriche messe in atto dal terrorismo massmediatico.
Una delle interpretazioni del termine “diavolo” (letteralmente “il calunniatore”) ne sottolinea la valenza divisiva: il diavolo (da dia-ballo) è colui che separa, che distingue. Nel paradiso terrestre, dove tutto si dava per vero, pone la possibilità del falso e insinua la sua calunnia: quel che vedi non è vero, se mangi del frutto dell’albero i tuoi occhi si apriranno per davvero (e ti vedrai per quell’essere fragile e nudo che sei).
Prima scena: Lee Kang-sheng è seduto sul divano e presumibilmente – non si vede bene – si masturba, in presenza di una donna anziana; finito, aziona degli elettrodi che gli stimolano la schiena. Probabilmente non siamo altro che questo, noi spettatori di The Deserted, film in realtà virtuale di Tsai Ming-liang: siamo onanisti stimolati elettronicamente; oppure, aggiungendo una dimensione a specchio, ci riflettiamo nello sguardo assente della donna, che sembra vedere senza essere vista, come se Lee presentisse la presenza di lei, senza esserne pienamente cosciente.
C’è qualcosa di più difficile da filmare di due persone che parlano in una stanza? Forse no, soprattutto se il dialogo diventa un campo di battaglia, una continua tensione alla ricerca della parola non detta e non scritta perché impronunciabile e inesprimibile: è la parola ultima, oltre la quale non c’è neanche l’immagine, se non dissolta in una chiusura in nero.