Difficile stabilire, senza essere accusati di dispotismo moralista, il limite fra quel che può e non può essere visto o rappresentato. Il limite ha però lo scopo di garantire una distanza tra colui che guarda e l’oggetto della visione. Paravel e Castaing-Taylor decidono, nel loro Caniba, di porre la telecamera vicinissimo al volto del cannibale protagonista, raggiungendo il limite (e a volte superandolo) della possibilità della visione, in una sorta di effetto “eyes wide closer”: più si avvicina lo sguardo al soggetto più questo, superato il limite di messa a fuoco, tenderà a sparire e a liquefarsi in macchia, alone, evanescenza sullo schermo.
Si ha quindi la percezione che siano i due registi i cannibali del titolo, coloro che divorano con la telecamera quel che vedono, lasciando brani del loro pasto. Si potrebbe porre quindi il problema della coincidenza fra l’esito del processo filmico e l’esito del processo digestivo – e, di conseguenza, si aprirebbe la questione di quel che viene offerto allo spettatore e sul limite delle sua capacità di sopportazione.
Ma del pubblico, sinceramente, poco interessa al nostro discorso: resta invece il rammarico di non aver avuto la possibilità di avvicinarsi al monstrum, di diventare suo prossimo, perché già troppo vicini. Come se non ci fosse abisso sul quale affacciarsi perché siamo già presenti nel suo fondo senza luce, dove nessuno sguardo di rimando può scrutarci nel profondo.