Una prima versione di questo articolo è uscito sul "manifesto" del 31 luglio 2020.
Finito, forse per il momento, stando a ciò che dicono i più prudenti, il tempo dell'ingollare profluvi di materiale cinematografico insieme a ogni tipo di farinaceo fatto in casa, in solluchero da lievito, chiusi in casa, in stanza (tendaggi), i cinema sprangati tant'è che anche un film atteso, poi risultato discusso come Favolacce dei D'Innocenzo lo si è visto sulle piattaforme, ora i film tornano ad animare i cinema che nonostante tutto restano i chiaroscurali, inalienabili santuari dell'immaginazione, e tra questi alcuni davvero magnifici, itinerari dentro ambagi psicofisiche, buchi neri, labirinti sonnambolici come High Life di Claire Denis e Long Day's Journey Into Night di Bi Gan.
Donna Haraway è tra le più importanti esponenti del pensiero ecologista e femminista. Il suo Manifesto Cyborg (1985) forniva un “antidoto” al femminismo della prima ondata - tendenzialmente essenzialista e radicale, quello della differenza, per intenderci – aprendo le porte a una prospettiva teorica tecno-materialista e abolizionista del genere. Non siamo più vincolate ai confini dei nostri corpi: corpi che si ibridano, che si “compostano” per usare un termine harawaiano, andando al di là del limite naturale. La figurazione del cyborg definisce così una soggettività parziale e contraddittoria, tecnologizzata e non più binaria. Il corpo come territorio di sperimentazione ed emancipazione, passibile di alterazioni e modificazioni. La riflessione di Haraway passerà poi per gli studi animali e per la teoria delle alleanze multi-specie, coniugando studi scientifici e tecnologici, scienze naturali e culturali (Primate Visions, The Companion Species Manifesto, When species meet…) e che si delineerà in maniera più puntuale nell’ultimo Chthulucene: Sopravvivere su un pianeta infetto. Ed è proprio da quest’ultimo libro che Federica Timeto muoverà per il suo Bestiario Haraway. Per un femminismo multispecie. Tramite figurazioni e suggestioni visive e riferimenti filosofico-letterari, Timeto elabora concetti fondamentali del pensiero della filosofa americana attraversando tutti i suoi scritti e definendo le linee guida per una teoria femminista multi-specie, che non si ferma all’eccezionalità umana andando a tendere verso l’altro – umano e non umano. Ne abbiamo parlato con l’autrice.
I primi tre decenni del secolo vengono scossi dalla comicità e dal riso come il corpo di una rana morta si contrae se irrorata di corrente elettrica durante gli esperimenti galvanici. Nel 1900 Bergson scrive Il Riso. Saggio sul significato del comico, ma i fratelli Lumière lo avevano anticipato: cinque anni prima girano L'Arroseur arrosè, libero adattamento per le neonate motion picture di una serie di vignette utilizzate negli spettacoli di lanterna magica (il delizioso corto di un rullo, citato da Disney nelle forme ipertrofiche del cartoon in Paperino Pompiere, venne interpretato dal loro giardiniere, Jean-Francois Clerc).
Il grottesco è concetto arduo da definire, sfugge alla certezza e alla precisione della parola, perché, risalendo a monte, problematica ne è innanzitutto la concettualizzazione. Una problematicità di individuazione concettuale, e quindi di descrizione, che promana da una ambiguità mai dirimibile che è sostanziale, riguarda la natura stessa di questo grottesco. Il grottesco infatti è per definizione uno stato di promiscuità, di commistione o conflitto ma, perché no, anche di congiunzione (già vedete che l’ambiguità si manifesta) tra condizioni diverse, spesso tra loro antinomiche, il che ci rende difficile una descrizione univoca.
Settembre 1921: mentre l’alcol continua a fluire, inebriante, nonostante la proibizione per legge e il jazz, agli albori della sua “età”, «mette in sincope il peccato» (per riprendere il titolo di un articolo un po' beghino uscito il mese precedente a firma della presidentessa del Ladies Home Journal), un gruppo di ricchi hollywoodiani affitta tre stanze contigue nell’albergo più grande della costa occidentale (il "St. Francis" di San Francisco) con l’intenzione di fare una baldoria gatsbiana dopo mesi di lavoro. Una giovane donna finisce per lasciarci le penne su sfondo apparentemente sessuale, gli american tabloid gridano allo scandalo, un ambizioso procuratore distrettuale prende al volo la palla della visibilità nella brama di diventare governatore. È in questo scenario ellroyano che il corpo comico più noto e pagato del cinema muto – Roscoe “Fatty” Arbuckle – si trasforma, agli occhi del mondo, in un corpo grottesco.
(Traduzione: Giovanni Festa)
La storia del cinema mostra da sempre l'utilizzo degli animali nei film. Dai famosi cavalli di Eadweard Muybridge allo sconosciuto cane protagonista di Adiós al lenguaje (Godard, 2014), un grande bestiario di specie diverse vive fantasmagoricamente nella terra delle ombre; l'asino di Bresson, gli uccelli di Hitchcock o i gatti di Varda e Marker, tra tanti altri casi, esistono attraverso il cinema, da esso imbalsamati. Sarebbe impossibile calcolare il numero approssimativo di animali usati nel solo cinema di Hollywood. Spiccano, in questa vastissima produzione, alcune commedie con animali assai note la cui abilità filmica resterà ineguagliata: A Dog's Life (1918) e The Circus (1928), di Charlie Chaplin; The Cameraman (1928), di Buster Keaton; Bringing Up Baby (1938) e Monkey Business (1952), di Howard Hawks. Oltre ad essere opere di poeti della comicità, hanno in comune un certo meccanismo comico legato a un motivo propriamente baziniano: l'incontro reale tra la bestia e l'umano.
1.
Nel 1950, l’anno in cui uscì Viale del tramonto, Gloria Swanson aveva 51 anni, ma Billy Wilder fece in modo che ne dimostrasse almeno cento: aveva più o meno l’età del cinema, ma la tecnica si era evoluta con tale rapidità che ogni anno si può dire contasse per due. Non era solo l’avvento del sonoro, che pure aveva avuto un ruolo fondamentale: erano cambiate le posture, i gesti, gli atteggiamenti, i generi. Il concetto stesso di Divismo si evolveva in senso “realistico”, meno caricato e teatrale, cercando di far dimenticare le sue origini melodrammatiche. Norma Desmond, dunque, ha cent’anni, almeno agli occhi dei moderni produttori (con ulcera) e dei giovani sceneggiatori ambiziosi come Joe Gillis (W. Holden), morto che parla galleggiando sull’acqua d’una piscina, con tre pallottole in corpo.
Più è sacro dov'è più animale
il mondo: ma senza tradire
la poeticità, l'originaria
forza, a noi tocca esaurire
il suo mistero in bene e in male
umano. Questa è l'Italia e
non è questa l'Italia: insieme
la preistoria e la storia che
in essa sono convivano, se
la luce è frutto di un buio seme.
Il verso di chiusa della seconda parte del poema L’Umile Italia, che in sé è un’invocazione accorata della natura come primigenia forza, forza d’autentico, forza di vero, che ancora il poeta riusciva a scorgere nei paesaggi silvestri del Friuli e nelle rondini, a noi serve per rimarcare l’importanza del «grottesco», ricerca inesausta della contraddittorietà dell’esistente come categoria del pensiero pasoliniano.
«[…] Finché sorriderò
Tu non sarai perduta
Ma queste son parole […]»
(Pier Paolo Pasolini)
«Fare opere in faccia / al vuoto»: così «il più amaro dei Poeti-Matti», quel Jim «pagliaccio che batte la frontiera» leggo – visioni di quell’altro Matto, Poeta alla frontiera del tragico, dove nel tragico sconfina il comico, corruga grottescamente la fronte, fa il ghigno del troppo umano sorvolo sulle cose, la smorfia beffarda che s’affaccia su questo, sempre più consueto, svilente microcosmo, scorrono: nella memoria, indietro, davanti agli occhi, dentro le orbite sfatte – e Deserto, in quella edizione dell’‘89 di Arcana Editrice curata da Schipa, assume ad ogni verso i contorni sfuggenti delle «nuvole», di quella domanda di Ninetto-Otello gettato con Totò-Jago tra i rifiuti di un reale desertificato, trova la verità nell’immaginazione: che non mente, che è mente, farsi racconto, raccordo, fiaba, quelle fiabe che sono Che cosa sono le nuvole ma anche La terra vista dalla luna e Uccellacci e uccellini.
A introdurre il volume di C. Eastwood, Fedele a me stesso. Interviste 1971-2011 (a cura di Robert E. Kapsis e Kathie Coblentz. Edizioni minimum fax, 2019), sono i due curatori, che partono, quasi naturalmente, dalle difficoltà giovanili dell’attore-regista alla ricerca di un lavoro, che, all’inizio come attore, non gli riesce certamente facile nella Hollywood di grandi protagonisti del cinema degli anni Cinquanta. È l’inizio di una storia che lo porta però sostanzialmente a passare da due stereotipi consacrati dalla filmografia di quel tempo, lo sfrontato poliziotto-carogna e il freddo pistolero, a nuovi prototipi, destinati a diventare tali proprio grazie a lui, e ai grandi registi che nel frattempo cominciano a dirigerlo.