Il grottesco è concetto arduo da definire, sfugge alla certezza e alla precisione della parola, perché, risalendo a monte, problematica ne è innanzitutto la concettualizzazione. Una problematicità di individuazione concettuale, e quindi di descrizione, che promana da una ambiguità mai dirimibile che è sostanziale, riguarda la natura stessa di questo grottesco. Il grottesco infatti è per definizione uno stato di promiscuità, di commistione o conflitto ma, perché no, anche di congiunzione (già vedete che l’ambiguità si manifesta) tra condizioni diverse, spesso tra loro antinomiche, il che ci rende difficile una descrizione univoca.

Pittori e letterati nel corso della storia delle arti ne hanno dato visioni differenti, per quanto accomunate sempre dalla presenza di alcune costanti. Potremmo con approssimazione lasca individuare nel grottesco il disvelamento di un’alterità, la manifestazione straniante dell’inaspettato in ciò che è noto o manifesto, dell’infinito nel finito. Una risata disperata. È con questa efficace immagine di sintesi tra opposti che Christian Dietrich Grabbe figurativizzava il concetto di grottesco, avvicinandosi non di poco a quelle che sarebbero state le teorizzazioni pirandelliane sul riso “umoristico” come riso capace di somatizzare anche gli aspetti di dramma nostro e altrui. Una risata, quella di Grabbe, che in sé sussumeva il pianto e il disincanto che l’uomo prova di fronte al crollo di quelle certezze illusorie che reggono la sua rappresentazione del mondo, la risata disperata di chi scopre la falsità dietro ciò che riteneva certezza. Questo riferimento a una pluralità di istanze, alla possibilità di rivelare stati di esistenza delle cose nascosti dietro l’apparenza nota e pacificata è il primo dei caratteri costanti che ritroveremo nelle varie definizioni di grottesco che stiamo per incontrare. L’altro fatto rilevante è che Grabbe parli di una «risata disperata», di un ridere che non è figlio del divertimento, del comico, ma di una più estesa consapevolezza del mondo che ce ne rivela gli aspetti contraddittori e inaspettati, e questa è un’altra costante: quella grottesca è risata incredula e dolente, non certo liberatoria o divertita.

Anche Hugo considerava fondamentale e imprescindibile la dualità\molteplicità come forma di manifestazione del mondo, come si evince da quel documento fondativo per tutto il romanticismo d’oltralpe che fu la prefazione al suo Cromwell (1827). Imprescindibile in quanto radicata ontologicamente in ogni aspetto dell’esistente, quindi di portata sistematica, universale. È in ragione della capacità di disvelare questa immanente contraddittorietà che il giovane artista distingueva un’arte che fosse «moderna», in grado di accedere “alla verità” della rinnovata realtà di quei tempi nuovi e ricchi di contraddizioni, da quella classica. Per il giovane Hugo la concezione passatista dell’arte classica era mono oculare perché gettava sul mondo uno sguardo focalizzato su un tipo singolo e uniforme di qualità l’eroismo, il romanticismo, il comico, ecc., che espandeva plasticamente, mentre ometteva le qualità di segno contrario. Dalla rappresentazione dell’eroe classico era espulsa qualsiasi caratteristica che alludesse a una qualche debolezza, vigliaccheria o miseria, mentre i tratti di forza, abnegazione, coraggio e senso patrio erano portati a dimensione monumentale, e lo stesso si faceva con le caratteristiche negative dell’antagonista, con quelle comiche del personaggio buffo, con quelle romantiche dell’amoroso o quelle estetiche della bellezza. Il superamento di questo modello passava proprio attraverso un’idea rinnovata di arte che fosse in grado di contemplare simultaneamente «il brutto» che nel creato esiste accanto «al bello», «il deforme accanto al grazioso, il grottesco sul rovescio del sublime, il male col bene, l'ombra con la luce». Trasferendo questa antinomia alla concezione che aveva dell’uomo, ecco che ci avviciniamo al tema della corporeità grottesca che a noi interessa, perché Hugo parlava della possibilità di far coesistere nello stesso personaggio, quindi nello stesso corpo, la «bestia», i sensi, le urgenze dell’istinto con «l’intelletto», rendendo questo corpo un crocevia di condizioni diverse, un terreno accidentato di contrasti di senso. Nel campo dei generi letterari iniziava a parlare di una sintesi/dicotomia inscindibile tra «deforme e l'orribile; dall'altro il comico e il buffonesco» che identificava nel genere della commedia.

L’elemento del disvelamento di una verità altra nascosta dietro l’apparenza, e quindi la conseguente idea che l’avvertimento di questa contraddittorietà sia una modalità di cognizione più adatta a inquadrare la reale natura del mondo, che è fatalmente contraddittoria, si ritrovano tutte anche nelle teorizzazioni di Pirandello, che nel saggio celeberrimo del 1908 L’Umorismo mette in campo l’idea di un grottesco, che lui definisce, appunto, «umoristico», come processualità di transizione (il tratto dinamico del grottesco che continuamente ritorna) tra «l’avvertimento del contrario», percezione epidermica di un qualche contrasto che genera il riso del comico superficiale, e il «sentimento del contrario», che è invece forma di comprensione empatica profonda raggiungibile solamente attraverso la riflessione che ci permette di comprendere le ragioni difformi che si stratificano dietro l’apparenza di cose e fatti. L’immagine esemplificativa che utilizza è quella celeberrima, mandata a memoria da milioni di studenti inconsapevoli: «Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di qual orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d'abiti giovanili». Secondo la sua ipotesi questa immagine di primo acchito mi suscita «l’avvertimento del contrario», la percezione di una sua non corrispondenza con l’immagine ideale di abbigliamento appropriato per quella fascia di età, che si risolve in un riso divertito ma inconsapevole. Qualcosa di molto simile all’idea di arte classica che aveva Hugo, uno sguardo che coglie solo gli aspetti immediati e concordanti del mondo. Per Pirandello il meccanismo grottesco, umoristico secondo la definizione sua, si innesca quando attraverso la riflessione, una riflessione che l’opera d’arte si incarica di suscitare, mi interrogo sulle ragioni di quel comportamento finendo con lo scoprire dietro di esso motivazioni e istanze diverse, le contraddizioni che prima non vedevo. Per questa via si scoprono quegli aspetti contraddittori che il comportamento ridicolo nasconde: dietro la comica mise posso vedere il terrore che questa signora in là con gli anni ha di perdere il suo giovane amore, o l’orrore che prova per il decadimento di un corpo una volta incantevole, divenendo consapevole degli spetti dolorosi che annidano dietro la manifestazione buffa. La risata comica, indifferente alle ragioni dei soggetti, si intride del dramma di questa donna, diventando «sentimento del contrario», percezione delle ragioni tragiche che la muovono, e si raggela nel tipico riso amarognolo del grottesco, la «risata disperata» di Grabbe.

Ecco, questa figurazione pirandelliana della vecchia imbellettata ci serve per abbordare il tema specifico della nostra riflessione attuale, perché considera il corpo, la fisicità concreta di questa signora imbellettata, come epicentro del processo grottesco. Un corpo che diventa regione liminale tra due condizioni contraddittorie, quella comica del comportamento e quella tragica delle motivazioni, che egualmente co-esistono, senza possibilità di disgiunzione, nella presenza carnale di questa vecchia sofferente e ridicola al contempo. Dai contributi considerati sin qui quella che emerge è un’idea di corpo non conchiuso in una unicità statica ma aperto a istanze eterogenee e al divenire che, come vedremo in un seguente articolo, ritroviamo anche in campo pittorico nei quadri di Chagall giovane, come Dedicato Alla Mia Sposa (1911), o Omaggio ad Apollinaire (1912) in cui il corpo diventa multiplo, femminile e maschile, umano, animale e vegetale insieme, perché concepito come fulcro radiante di una molteplicità di condizioni e istanze. Un’idea di corpo che ritroveremo anche alla base della definizione di grottesco elaborata da Bachtin: l’idea di un corpo come “terra di confine”, come luogo e mezzo sostanziale di una epifania simultanea di condizioni contraddittorie, che si attiva a partire da una qualche forma di interazione con “l’altro”, con l’esterno, con altri corpi, si ritrova, per esempio, nella pittura di Chagall del primo periodo in cui il corpo, attore principale di quello che Bachtin definiva come dramma corporeo, diviene un corpo aperto, sconfinante, ambivalente, anzi, pluri-valente e in cui nascita e morte, umano e animale, vecchio e giovane, ma anche interno ed esterno e una molteplicità di altre condizioni potevano darsi simultaneamente. Un corpo «exotopico», definizione bachtiniana, che “dislimita”, la terminologia bressaniana qui è più che calzante, superando tutte quelle separatezze che definiscono il corpo autarchico e perfettamente conchiuso. È quindi un corpo assunto in una potenziale infinità di relazioni tra il suo interno e il suo contorno. Un corpo che non può più essere considerato solo dal punto di vista della propria relazione solipsistica con se stesso, ma che si apre alla relazione con ciò che è altro rispetto a sé, altri corpi, altre visoni, il mondo nella sua complessità, forse. In Omaggio ad Apollinaire, dipinto tra il 1911 e il ‘12, l’immagine bicorporea di un Adamo e di una Eva si fondono in un solo corpo androgino e bisessuato che è sintesi delle opposte determinazioni di genere.

Chagall-Omaggio-ad-Apollinaire

In dedicato Alla Mia Sposa, sempre dell’‘11, questa compromissione tra istanze eterogenee è ancora più marcata, dal momento che ritrae anch'esso due corpi, uno maschile, tauricefalo e uno femminile, dalla cui bocca fuoriesce un filamento biancastro, di fiato o di sputo. I due corpi non sono fisicamente fusi come nell'Omaggio ad Apollinaire, ma aggrovigliati in un inestricabile intrico di membra tale che le due distinte fisicità, dipanate sulla superficie piana della tela secondo la più tipica apertura monoplanare della tridimensionalità di stampo cubista, siano del tutto indistricabili e indistinguibili. Una rappresentazione grottesca dei corpi, dunque, in cui istanze diverse, l’interno e l’esterno cui lo sputo allude, il maschile e il femminile, l’umano e l’animale si ritrovano giustapposte e al contempo inscindibilmente sintetizzate. È un’idea della corporeità in cui ritroviamo molti degli assunti ritornanti del grottesco. L’idea che dietro l’apparenza unitaria, autarchica delle cose, e quindi dei corpi, premano anche istanze altre, molteplici, in contraddizione reciproca ritornava già in Hugo, che nella prefazione al Cromwell riteneva che nel creato coesistano «il deforme accanto al grazioso, il grottesco sul rovescio del sublime, il male col bene, l'ombra con la luce» e che quindi compito dell’arte onesta fosse quello di far emergere queste antinomie. I corpi di Chagall non sono poi troppo diversi da quello della vecchia imbellettata come un’adolescente in cerca di avventure che descrive Pirandello in L’umorismo, del 1908, nel cui corpo agghindato possiamo cogliere, quando attraverso la riflessione passiamo dal semplice «avvertimento del contrario» a un vero e proprio «sentimento del contrario», le ragioni tragiche (la paura di perdere un amore) che motivano i suoi comportamenti. Condizioni molteplici, il comico e il tragico, che si danno in unico corpo, come avveniva con i corpi plurimi, maschili e femminili, umani e zoomorfi dei dipinti di Chagall, in una concordanza non voluta di visioni, che a noi torna utile per corroborare la nostra ricerca del grottesco.

La strada che stiamo percorrendo verso la scoperta di un corpo grottesco, che dovremo però riportare entro i termini di un discorso sul cinema, sembra essere quella giusta, visto che queste medesime varianti che abbiamo rinvenuto in ambito pittorico, poi si ritrovano pure, in un contesto decisamente più teoretico e speculativo, in quell’idea di "realismo grottesco" che in seguito teorizzerà Bachtin, il quale affronta la questione di questa dualità implicita nel mondo e negli uomini a partire da una prospettiva ampia, di rilettura antropologica, storica e sociologica. Secondo questa prospettiva la struttura sociale in cui meglio si presentifica l’idea del grottesco è il «carnevale», nel suo essere struttura di continuo rovesciamento reciproco di opposti, identità e condizioni “altre” che attraverso il mascheramento, si riversano nei corpi, il maschile può diventare femminile e viceversa, l’umano animale, il ricco povero, e così via. Il carnevale, dunque, sarebbe un lasso di tempo socialmente delimitato in cui è lecito manifestare la dualità/molteplicità intrinseca dell’esistente, che normalmente permane in uno stato non manifesto. L’altro fatto per noi interessante è che una delle sue opere più accreditate sia L’opera di Rabelais e la cultura popolare: riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale delle strutture del riso (1965) in cui, il teorico ribadisce, il titolo è tutto un programma, il legame stretto tra la questione del grottesco e quella del ridere, che ci permette di riallacciarci all’idea di quella risata «disperata», sghemba che già avevamo rinvenuto nelle teorizzazioni di Grabbe, Hugo e Pirandello. Nel saggio su Rabelais rinveniamo l'idea di un corpo grottesco definito nei termini di «mezzo di interscambio sregolato» la cui natura è biologica e sociale insieme che calza perfettamente rispetto al nostro discorso. Per Bachtin questo «mezzo di interscambio sregolato» tra condizioni differenti è dominato da una serie di bisogni biologici primari, la fame e la sete, la defecazione, la minzione, gli impulsi sessuali, che, come vedremo, svolgono un ruolo di importanza primaria anche nel grottesco che riconosceremo nel cinema, in cui la pratica corporea ha un ruolo di significazione primario.

Un altro dato per noi importante è che Bachtin, come Grabbe, Hugo, Pirandello e Chagalle riconoscano al grottesco un valore conoscitivo primario, di disvelamento più profondo e più fedele della verità ontologica del reale, che è sempre contraddittoria e non univoca. Entrambi questi caratteri, infatti, come vedremo spostando la riflessione in campo cinematografico, ritornano come costanti della poetica di registi e attori “grotteschi”, come Chaplin, Maresco o nelle opere di certo Pasolini, tutti accomunati dall’intento di restituire del mondo e della natura umana una rappresentazione più “vera” in quanto capace di coglierne l’essenza irrimediabilmente molteplice e contraddittoria, il grottesco come categoria conoscitiva, e che trovano in un corpo dominato dalle necessità fisiologiche più basse, il medium incarnato per manifestarla. La fame atavica dei personaggi di Chaplin e Pasolini, i rimandi basso corporei e sessuali sempre di Pasolini, ma anche di Maresco, sono sempre la manifestazione carnale di un corpo che si colloca al crocevia tra condizioni contrastanti, il «mezzo di interscambio sregolato biologico e sociale» ipotizzato da Bachtin, corpi che permettono sempre di rinviare “ad altro”, alla miseria, all’abbrutimento morale e al dissiparsi del “valore” che patologicamente infetta questa realtà.

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