Settembre 1921: mentre l’alcol continua a fluire, inebriante, nonostante la proibizione per legge e il jazz, agli albori della sua “età”, «mette in sincope il peccato» (per riprendere il titolo di un articolo un po' beghino uscito il mese precedente a firma della presidentessa del Ladies Home Journal), un gruppo di ricchi hollywoodiani affitta tre stanze contigue nell’albergo più grande della costa occidentale (il "St. Francis" di San Francisco) con l’intenzione di fare una baldoria gatsbiana dopo mesi di lavoro. Una giovane donna finisce per lasciarci le penne su sfondo apparentemente sessuale, gli american tabloid gridano allo scandalo, un ambizioso procuratore distrettuale prende al volo la palla della visibilità nella brama di diventare governatore. È in questo scenario ellroyano che il corpo comico più noto e pagato del cinema muto – Roscoe “Fatty” Arbuckle – si trasforma, agli occhi del mondo, in un corpo grottesco.

Quello che fino a quel momento, amaramente sprotetto da qualsivoglia stigmatizzazione pubblica del fatshaming, era frequentemente definito dai giornali e conosciuto da lettori e spettatori come un simpatico e inoffensivo «roly poly» (trippone), «il cetaceo del cinema», la «montagna di carne», diventa improvvisamente uno stupratore e un assassino, una forza violenta che secondo le valutazioni medico-legali post-mortem avrebbe causato la rottura della vescica di Virginia Rappe, determinando la peritonite risultatale poi fatale. Centoventi chili di grasso, fin lì sospesi, astratti, aleggianti come pura forma nello spazio senza gravità dell’illusione filmica, assumono di colpo lo status di arma letale. Nell’oscenità, nello stare letteralmente fuori dalle scene della slapstick, che pure era riuscita nel miracolo di rendere esilarante tanta fisica violenza, nel suo mostrarsi nel retroscena della vita sociale, il corpo di Arbuckle ri-acquista finalmente e fatalmente tutto il suo “peso” reale.

L’obesità, l’eccedenza, tollerata perché bilanciata dalla possibilità dell’ironia e dello scherno, assume senza più infingimenti i contorni neri della colpa, divenendo l’incarnazione delle esagerazioni dell’età del jazz, dei gangster e delle prime grandi star cinematografiche. La carne flaccida di Arbuckle – molle, regressiva, lasciva – è l’emblema di una morbidezza (di usi, costumi e norme) che una certa America di quegli anni non voleva più concedersi nei confronti delle trasgressioni al duro credo cristiano-conservatore. Fatty diventa il capro espiatorio di un’intera industria, che pur di sopravvivere alla furia iconoclasta dei censori non esita ad accettare le spinte più reazionarie provenienti dalla società e ad autoregolarsi attraverso la creazione della Motion Picture Producers and Distributors Association, con il repubblicano William Hays come presidente, vera e propria anticamera dell’introduzione, un decennio più tardi, del famigerato Production Code. Prima ancora che il processo per omicidio cominciasse, le proiezioni dei suoi film erano già state cancellate, il suo nome destinato a scomparire dal firmamento hollywoodiano.

La colpa di Arbuckle è di aver esibito il corpo nelle sue funzioni primarie, fuori dalla finzione, svelando al pubblico, che da spettatore divertito delle sue gag si è ritrovato accusatore furibondo delle sue azioni, i suoi disdicevoli bisogni presi nella loro cruda nudità. Senza film, appunto, senza pellicole o preservativi. Ecco dunque che, nell’esposizione, (soprattutto quella dell’accusa, in tribunale), nella presentazione, più che nella rappresentazione, il suo corpo appare grottesco, pericoloso, ripugnante. Il raccapriccio, del resto, è elemento fondante del grottesco, che si ha quando il comico si riversa nel patetico, frantumandosi e lasciando fuoriuscire la sua bassezza, i suoi umori più densi e neri.

Ciò che era conosciuto e familiare si rivela improvvisamente estraneo e sinistro, le proporzioni mutano e il corpo chiuso, definito, si presta a definizioni inedite, nuovamente in relazione con il mondo. È questa ridefinizione, questo mutamento di percezione, questa apertura ad uno sguardo riterritorializzante il primo elemento che fa del corpo di Arbuckle un corpo bachtiniamente grottesco, senza dimenticare il dato fisionomico di partenza. Tornando infatti, un attimo, al lato meramente materiale, più che percettivo, alla «montagna di carne», ai centoventi chili e al ventre, non si può che esplicitare, per chiarezza e completezza, che la pancia è chiaramente già di per sé uno degli elementi centrali dell’idea di grottesco tratteggiata da Bachtin nel suo abusatissimo studio su Rabelais, facendo parte di quelle parti del corpo che possono trascendere i suoi stessi limiti durante la copulazione, la gravidanza, il parto, l’atto del mangiare, del bere o del defecare: il ventre, appunto, ma anche l’ano, i genitali, la bocca.
Come un Sileno ubriaco dipinto da Rubens o de Ribera, Arbuckle protrude, escresce nella sua rotondità, nella sua massa di muscoli e grasso, vivendo una sproporzione che raggiunge il suo acme quando codesto ammasso si ritrova nello stesso frame, ad esempio, con un mingherlino come Buster Keaton (si veda in particolare la scena del corteggiamento in Good Night Nurse). E poi, ad aggiungere grottesco al grottesco ci sono gli eccessi, le maschere, i travestimenti. Cos’altro era la sua megastanza d’albergo – formata da 3 stanze contigue, la 1219, la 1220 e la 1221 – se non il tempio laico di una celebrazione a base di cibo, alcol e sesso, un martedì grasso, un carnevale dall’abbondanza pantagruelica?

Molti degli aneddoti su Roscoe Fatty Arbuckle gravitano attorno al concetto di appetito. Si potrebbe pensare, ad esempio, al fatto che a 14 anni fosse già il campione dei mangiatorte della contea di Santa Anna in California o che il suo leggendario incontro con il padre della rivoluzione messicana, Pancho Villa, raccontato da Stuart Oderman nella sua biografia dell’attore (Oderman, 1994), sia avvenuto mentre lui e i suoi amici lanciavano porzioni del loro enorme picnic ad una truppa di soldati messicani che gli erano sembrati consunti e affamati, sull’altra riva del Rio Grande, a El Paso in Texas, dove si trovava insieme alla sua compagnia “Reed and Arbuckle Company” in cerca di una giocata a Keno (un gioco simile al bingo o alla lotteria)
Anche sullo schermo, del resto, cibo e appetito non mancavano di certo in quel periodo, dato che, come spiega Alex Clayton nel suo libro sull’utilizzo del corpo nelle commedie del cinema muto, The Body in Hollywood Slapstick (2007), alla base della comicità c’è l’idea che il corpo sia una sorta di macchina che mastica, tracanna, digerisce ed espelle. L’esperienza comica, infatti, – lo aveva già spiegato Bergson – può trarre una buona dose della sua forza dal modo in cui porta l’attenzione dell’homo ridens sulla materialità del corpo, su come esso si opponga, con una sorta di risibile automatismo, goffaggine, pesantezza terragna, alla grazia leggiadra dell’anima immateriale che aspira all’ascesi.

E nel caso di Arbuckle, che pure sapeva muoversi con bizzarra eleganza e agilità, nonostante la mole, questa incongruenza tra massa bestiale e svolazzamento celestiale garantisce un ulteriore boost di grottesco ad alcune sequenze della sua filmografia. Si prenda ad esempio la scena del ballo in The Cook, in cui dopo aver visto suo assistente-cameriere piroettare con disinvoltura il cuoco Fatty decide di prodigarsi in una danza sensuale e femminea con tanto di pentole e palette a simulare fattezze e accessori della danzatrice che sta intrattenendo i commensali in sala. Come se non bastasse una lunga serie di salsiccette viene usata a mo’ di collana per poi essere famelicamente ingurgitata dall’affamato cuciniere.
Siamo qui al cospetto con una delle scene forse più grottesche dell’Arbuckle attore: la sproporzione fisicità-aspirazione è massima, la bocca trangugia con avidità il suo cibo, il travestimento trasforma il corpo, aprendolo a nuove identità. Eccoci allora all’ultimo elemento che fa di Roscoe Arbusckle un corpo perfettamente grottesco, fuori e dentro lo schermo: il mascheramento, la maschera in cui, scrive Bachtin, «si rivela molto chiaramente l’essenza del grottesco»1M. Bachtin, L'opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Einaudi, Torino, 1979, p.47

Questa rielaborazione carnevalesca della realtà, dell’individuo, è ben rintracciabile in molte performance di Arbuckle, da Miss Fatty’s Seaside Lovers, in cui Fatty veste i panni della figlia corpulenta e manesca di un ricco magnate (con tanto di completino da mare e di ombrellino vezzoso) ai già citati Good Night Nurse, che vede l’attore indossare gli abiti di una infermiera, oggetto divertentissimo delle avance di Keaton e The Cook, con la sua danza e gli ornamenti ben poco mascolini.
Si rintraccia anche qui, come nel discorso sul grasso e sulle proporzioni fisiche, una discordanza, una sconvenienza che alimenta l’imagerie grottesca, spostandola dal corpo ai suoi travestimenti, ai suoi camuffamenti.  E a ben pensarci è forse propria questa sgraziata inadeguatezza, questo essere fuori dal canone, dal previsto, dalla convenzione, che, in ultima analisi, fa sì che il corpo grottesco sia un corpo respinto, deriso, messo al bando

Del resto, come recitava il payoff dei manifesti pubblicitari di The Round-Up, film western del 1920 in cui Roscoe è addirittura uno sceriffo dalla fisionomia non propriamente canonica per il genere, «nobody loves a fat man». 

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