«[…] Finché sorriderò

Tu non sarai perduta

Ma queste son parole […]»

(Pier Paolo Pasolini)

«Fare opere in faccia / al vuoto»: così «il più amaro dei Poeti-Matti», quel Jim «pagliaccio che batte la frontiera» leggo – visioni di quell’altro Matto, Poeta alla frontiera del tragico, dove nel tragico sconfina il comico, corruga grottescamente la fronte, fa il ghigno del troppo umano sorvolo sulle cose, la smorfia beffarda che s’affaccia su questo, sempre più consueto, svilente microcosmo, scorrono: nella memoria, indietro, davanti agli occhi, dentro le orbite sfatte – e Deserto, in quella edizione dell’‘89 di Arcana Editrice curata da Schipa, assume ad ogni verso i contorni sfuggenti delle «nuvole», di quella domanda di Ninetto-Otello gettato con Totò-Jago tra i rifiuti di un reale desertificato, trova la verità nell’immaginazione: che non mente, che è mente, farsi racconto, raccordo, fiaba, quelle fiabe che sono Che cosa sono le nuvole ma anche La terra vista dalla luna e Uccellacci e uccellini.

L’alto da cui si posiziona l’occhio pasoliniano è richiamato semanticamente, oltre che da «nuvole», dal verbo «vedere» e dalla scelta dei sostantivi «luna» e «uccellacci e uccellini»: ossimoricamente, i titoli dei tre episodi girati tra il 1966 e il 1967 inseriti nei film Le streghe (La terra vista dalla luna) e Capriccio all’italiana (Che cosa sono le nuvole), con il «poetico clown senza tempo» (Petraglia, 1974) Totò come protagonista, sono tutti punti focali sulle umane miserie, prospettive di un volo. È come se il regista volesse dirci di stare in guardia, che l’angolo visuale è capovolto perché la collocazione concettuale di questo alto metaforico è dal basso che ha origine, dove in effetti l’elemento comico trova teoricamente la sua forza istintuale: ecco che il corpo comico di Ninetto Davoli, luminosa bestiale primitiva umanità col sole fra i denti quando ride, batte i passi sul suolo impolverato, quei «passi» che si devono «ricordare»  –  «[…] uno, due, tre e quattro […]» – che sono i movimenti meccanici nei panni improvvisati e insoliti di un maestro mentre guida il manipolo di giovani in giro di danza buffa, assumendo solo per un momento l’aria da «bravo cristiano» proprio come «quer corvo» che invece è «uno che continua a parlare, non si sa più di che cosa, a degli uomini che vanno non si sa dove». La parola, qui, l’ingenua parola che non dice nulla, che dice, piuttosto, le movenze semiserie da marionetta di questo ragazzo del popolo, anticipa quella vana e sofferente, lamentevole, tragicomica nell’intensità che sale e scende a rimarcarne il timbro caricaturale, del corvo-poeta che finirà per essere divorato in un crudele banchetto, accorata teofagia di questo dire inattuale, necessario ma inutile strazio di stare al mondo. Anche prima infatti, quando alla domanda di Totò «Che è successo?», e seguono in primo piano gli occhi fissi, le labbra contratte semiaperte in un’espressione attonita, la risposta, idiota , essenziale però, e perciò lucidissima, emblematica del tono che Pasolini imprime alla pellicola, non può che essere «Boh!», la macchina da presa diretta verso un casolare cadente, come le sopracciglia di questo padre sgangherato, claudicante, saltellante, in cammino con un figlio che ride: ma ride senza gioia appunto, senza forse pensiero alcuno, di una risata meccanica, assente, dinoccolata come quelle gambe che s’allontanano, sempre più piccole nella profondità del campo.

Del resto, se «[…] la vita non è niente […]», è invece «tanto» la morte: indugia la macchina da presa di Pasolini, alle spalle del padre e del figlio una città e uno sterrato ricurvo, davanti s’aprono scenari ignoti, campi lunghi a perdita d’occhio, a partire proprio dall’incedere incerto di Totò, di questo padre che va, che non incarna il ruolo di una guida per Ninetto o, se lo fa, «passate di moda le ideologie», lo fa con la tenerezza di un uomo che porta su di sé le tracce di un ormai morto passato, in nome di un’autorità scentrata, disincarnata, scarna, che rinvia al discorso sofferto sull’estromissione dalla società della figura paterna, anche politica, civile. Questo padre può soltanto, al massimo, illudere se stesso e il figlio che «[…] quando uno è morto, tutto quello che doveva fare l’ha bell’e fatto […]» o che qualcuno, se proprio fosse morto, potrebbe ancora tornare in vita se si ordinasse di farlo – «[…] Non c’è nessuno in questa casa? Resuscitate!»  – cosicché la risata si libera da questa caduta, dall’inciampo liberatorio sull’assurdo, dalla incongruenza messa in atto con la ridicolizzazione di concetti e situazioni comunemente seri così come insegna Bergson nel suo celebre saggio Le Rire. Essai sur la signification du comique.

Ma potrebbe anche accadere il contrario, cioè che il padre, in La terra vista dalla luna, esorti così la folla accorsa dinanzi al Colosseo, con effetti comici: «E voi!? Che state a fare qua? Facciamo un suicidio generale!», non prima di aver inscenato, fiaba dentro la fiaba cinematografica, un duetto tragicomico, e perciò grottesco, col figlio, farsa dolente che apre squarci interpretativi sul vivere, e morire, interno ai meccanismi familiari e sociali: «Moglie mia! Mamma! Mamma! Moglie mia! Consorte amata!». E quella, la moglie-madre così amata, mima dall’alto azioni, pensieri, scimmiotta la vita, rispondendo a Totò-marito che grida dal basso (mettendo in atto quella che è caratteristica ridondante del comico, ossia, appunto, la ripetizione): «Sta dicendo che da quando ci siamo sposati sì e no abbiamo mangiato tre o quattro volte…Ma che te frega! Che te frega!». Poi la donna precipita, fra le risate degli astanti: «È morta davero! È morta davero!» perché, come scrive ancora Petraglia nella sua monografia «[…] si ride alla vita e alla materia, anche se talvolta si incontra la morte» (Petraglia, 1974)

Che cosa sono le nuvole è una modalità di sopravvivenza, invece: all’arbitrio cui si sottomette una società sempre più assuefatta e meno cosciente, tanto che la non coscienza del sogno sembra essere l’alternativa giocosa, luminosa, alla decostruzione marionettistica che è diventata la realtà, questa pure clownesca, ripetitiva, assurda, finanche comica, invertendo dolorosamente i ruoli. Il pubblico oggetto dell’inquadratura assiste al teatrino, alla metafisica, sorniona, deformante messa in scena di un dramma che si protende verso la morte. «Ma qual è la verità? È quello che penso io de me o quello che pensa la gente o quello che pensa quello là lì dentro?», «Eh…cosa senti dentro di te? Concentrati bene. Cosa senti eh?», «Sì sì, si sente qualcosa che c’è», «Quella è la verità ma sssh… non bisogna nominarla perché appena la nomini non c’è più»: nostalgia di qualcosa che resta nella parola non detta, non nichilismo e non attacco corrosivo come per altre opere dell’autore, piuttosto riflessione nostalgica, malinconico ripiegamento, deriva autentica e quindi deformante di una verità troppo dolorosa per non essere drammatizzata, sorridendo.

Questa paternità clownesca, presente in tutti e tre i film, incarnata dalla figura di Totò, così lontano per la definizione e la maturità dei tratti e dei caratteri, tipiche dell’attore professionista, rispetto a Davoli, così naturalmente invece e volutamente acerbo nel ruolo di interprete, traccia il profilo della marionetta tragica, si inscrive perfettamente nella storia di un mondo «ai limiti» e anzi «in un certo senso, fuori dalla storia»: poiché oppone gli estremi, non solo il comico e il tragico ma anche l’umano e il non umano, la risata e la riflessione, il limite che intercorre fra il tempo e la morte, la vita e la negazione della vita;  grottesco alle radici dell’esistente, umanità stessa tesa fra due poli, quelli che il poeta riconosce come qualità dell’uomo appunto, e interprete Totò, Pulcinella sottoproletario, decadente, così disperatamente umano nella stilizzazione di sé, quando fa di sé teatro scanzonato, e muove disarticolato le nocche, la bocca, la lingua. Ma se la realtà ha un linguaggio, è linguaggio, allora l’assunto pasoliniano per cui il cinema è «lingua scritta della realtà» testimonia della realtà del sogno, di cui si impregna la crisi irreversibile del propriamente umano nella storia; e si scrive qui, senza sorridere ma talora sì, di un sorriso ancipite, testimonianza dell’ambivalenza comica e tragica del vivere.

È l’agonia dell’abbandono, il «mah» del burattino nella discarica, degli occhi vivi nel corpo immobile, cercando nelle nuvole la tenacia di stare così, ancorati all’incanto dell’immagin-azione. Che ancora ricorda, imploso lo strazio della bellezza, “cos’era”, appunto, la vita.

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