Donna Haraway è tra le più importanti esponenti del pensiero ecologista e femminista. Il suo Manifesto Cyborg (1985) forniva un “antidoto” al femminismo della prima ondata - tendenzialmente essenzialista e radicale, quello della differenza, per intenderci – aprendo le porte a una prospettiva teorica tecno-materialista e abolizionista del genere. Non siamo più vincolate ai confini dei nostri corpi: corpi che si ibridano, che si “compostano” per usare un termine harawaiano, andando al di là del limite naturale. La figurazione del cyborg definisce così una soggettività parziale e contraddittoria, tecnologizzata e non più binaria. Il corpo come territorio di sperimentazione ed emancipazione, passibile di alterazioni e modificazioni. La riflessione di Haraway passerà poi per gli studi animali e per la teoria delle alleanze multi-specie, coniugando studi scientifici e tecnologici, scienze naturali e culturali (Primate Visions, The Companion Species Manifesto, When species meet…) e che si delineerà in maniera più puntuale nell’ultimo Chthulucene: Sopravvivere su un pianeta infetto. Ed è proprio da quest’ultimo libro che Federica Timeto muoverà per il suo Bestiario Haraway. Per un femminismo multispecie. Tramite figurazioni e suggestioni visive e riferimenti filosofico-letterari, Timeto elabora concetti fondamentali del pensiero della filosofa americana attraversando tutti i suoi scritti e definendo le linee guida per una teoria femminista multi-specie, che non si ferma all’eccezionalità umana andando a tendere verso l’altro – umano e non umano. Ne abbiamo parlato con l’autrice.

Il secondo capitolo del tuo libro è quello che più colpisce per forma ma soprattutto per contenuto. Lo sguardo evasivo e sfuggente del gatto, cui è dedicato il capitolo, lo si percepisce già dalla splendida illustrazione di Silvia Giambrone. Il risultato è incredibile e va dritto a colpire i sensi. Puoi dirci in che modo l’hai costruito?

È un capitolo che ho lasciato per ultimo con l’idea che dovessi fare qualcosa di diverso. È molto poetico e tattile, richiede un avvicinamento alla parola che non è solo quello della comprensione ma anche quello del lasciarsi andare. Alterno passaggi tratti da When species meet di Haraway e parti poetiche che evocano l’energia elettrica del pelo del gatto, il suo corpo e sguardo che ti accarezza e ti chiede di essere accarezzato in un processo comunicativo non necessariamente verbale. Il tentativo è quello di andare sul piano del “non-logos”, potendo incontrare la nostra parte animale, appunto intraducibile. Nel capitolo ci sono voci che si confondono, sovrappongono e alternano per parlare dell’animale che sfugge al linguaggio, avendo bisogno di un altro tipo di incontro. Anche l’illustratrice ha avuto non pochi problemi a rappresentare quest’idea di inafferrabilità dell’animale, tanto da averlo paragonato a dio. Non a caso, guardando l’illustrazione, si legge god all’interno di un riquadro fucsia che, ancora non a caso, Angela Balzano ha ricondotto al fucsia di Non una di meno.

Le metafore animali, riprendendo l’immagine del femminismo-coyote che attraversa i confini per costruire legami o la tessitura della ragnatela come pratica di creazione di reti di supporto e solidarietà, per rendere il dinamismo e la poliedricità dei femminismi sono molto presenti nel tuo libro. Che metafora animale utilizzeresti per rappresentarli o rappresentarne uno? E che impressione hai dei movimenti femministi oggi?

Non userei tanto la parola metafora, ma piuttosto figurazione. È un termine che Haraway sostituisce volutamente a quello di metafora perché le figurazioni necessitano di essere sia abitate che collocate, mentre le metafore portano da altre parti. L’idea di portare da altre parti Haraway ce l’ha perché la figurazione ha sempre questo contenuto non letterale, non illustrativo. Pur mantenendo l’elemento del trasporto e della trasformazione della metafora, non ama la traslazione e dematerializzazione che le metafore comportano. Le figurazioni invece riportano a terra quello che le metafore tendono a sganciare dai corpi, a rendere più astratto. Parlando del discorso del ragno e del coyote, direi che il ragno sia è utilizzato e radicato nella storia del femminismo, anche perché questa idea della reticolarità e del network, della tela di ragno come fare e disfare, come capacità creativa e connettiva è un qualcosa di cui le teoriche del femminismo, ecofemminismo e cybermminismo hanno parlato molto. Una reticolarità che sfugge all’ottica delle reti del dominio, che parte dal basso, dai corpi, non dematerializzata. Tornando alla tua domanda, penso che questa idea del femminismo aracnoide potrebbe essere quella attuale. Ma anche quella del coyote, animale che cambia sempre, che non si lascia fissare in un punto o in un’immagine, e che rimanda all’idea dell’accomodamento delle differenze, anche se effettivamente oggi è come se queste differenze è come se rischiassero di diventare delle spaccature. Quando in realtà la differenza è ricchezza nel femminismo. E se, ancora, vogliamo anche parlare di intersezionalità, anche l’idea di femminismo intersezionale rimanda all’idea dell’incrociarsi, del creare tra nature.

E anche del superamento dei confini?

Assolutamente. Del meticciato e dell’ibridazione. Bisogna secondo me creare degli ecosistemi, dei mezzi in cui stare insieme, connettersi, e si tratta sempre e comunque di un’operazione tecnica. Non c’è mai nulla di naturale, anche nell’ecologia, nel concetto di natura, in quello del corpo. Io non credo nel corpo naturale, e quindi neanche nell’affinità naturale. Quest’idea dell’ibridarsi deve contemplare anche la possibilità di un innesto di differenze che comporta delle strumentazioni, dei mezzi e agganci che sono tecnici. Aggiornerei in questo senso l’immagine del cyborg in maniera più differenziata. E da questo punto di vista l’assunto del Manifesto Cyborg credo risuoni più forte di quello dello xenofemminismo, che lo riprende, secondo me, ma semplificandolo.

Ecco. Helen Hester in Xenofemminismo parla, tra i tantissimi spunti, di alternativa alla famiglia mononucleare, bianca ed etero per diffondere un alternativo sistema di valori. In che modo secondo te si ricollega ad Haraway tanto più considerando il noto slogan “Generate parentele, non bambini”?

Questo è uno dei punti più controversi e discussi dell’ultima Haraway. Dopo Chthulucene: sopravvivere su un pianeta infetto scrive un testo che si chiama Making kin not population, uscito nel 2018 e scritto con Adele Clarke, dove c’è un saggio di Haraway dal titolo Making kin in the Chthulucene. Reproducing multispecies justice, dove approfondisce un’idea che le è stata molto contestata, cioè di una figurazione delle femministe bianche e medio-borghesi che non tiene conto di tutte le differenze tra soggetti femminili e femminismi. Ma se anche andiamo a leggerci la storia delle Camille, Haraway non parla di anti-natalismo, lo slogan è semmai un dare priorità alla questione di cura rispetto a quella della generazione naturale: immaginare futuri da unioni queer, non di sangue e che ha per me una forte carica politica, per il bisogno di prendersi cura di quello che non viene da te e che non è tuo. In Manifesto Cyborg ha scritto in una frase: “Bisogna imparare a vedere insieme all’altro senza pretendere di essere un altro”, a mio avviso abbastanza significativa. Il mondo cyborg potrebbe comportare vivere realtà sociali e corporee in cui le persone non temano la loro parentela con macchine o animali insieme. Haraway immagina che l’alterità è già parte dell’Io. E se dà priorità al concetto di relazione, è dalla relazione che nascono le cose, non dall’essere, punto chiave di tutta la sua ontologia. Perché se tutto nasce dalla relazione è ovvio che fate parentele indica anche quello e infatti lei collega il concetto soprattutto all’idea di giustizia riproduttiva. Nel saggio che citavo all'inizio, che parla di giustizia riproduttiva e del fatto che ogni vissuto di maternità è differente come anche ogni desiderio di maternità, dato che le realtà storiche dei corpi sono diverse, lei risponde a molte critiche che le sono state fatte. Da una parte esce dall’immagine di donna bianca occidentale, medio borghese, che fa parte di un mondo privilegiato, dall’altra tenta di de-umanizzare il concetto di riproduzione, immaginando anche i morti e vivi, o meglio forzatamente vivi, quelli fatti nascere per determinate condizioni sociali ed economiche. In un capitolo di Chthtulucene lei parla del Premarin, un ormone estratto dall’urina di cavalle gravide forzate a vivere in dei piccoli box attaccate a cateteri e responsabile di insorgenze tumorali. Lei parla quindi della sua cagna Cayenne anziana a cui era stato prescritto il Premarin, costruendo la storia del farmaco facendo collimare l’esperienza dei corpi dell’animale torturato, della cagna anziana e della donna in menopausa, in un groviglio mostruoso ed esistenziale che ci fa domandare: l’interesse del mio stare bene va a discapito di chi?

Cosa ne pensi delle critiche mosse al pensiero di Haraway, definito poco scientifico o fin troppo utopico?

Il femminismo multispecie di cui parlo io parte dall’assunto diametralmente opposto a quello che immagina una fusione edenica in cui tutti convergano in unità annullando frizioni e differenze. Lei non smette di dire che siamo esseri parziali e che entriamo in connessione con altre forme di parzialità, con cui diveniamo in modi anche estremamente nocivi o letali. Le differenze nell’idea di incontro queer delle oddkin, sono attraversate, non cancellate. Direi poi che l’ultimo libro è molto cupo e molto basato sulla finitezza e comprensione del senso del limite. Molto di più di quanto non accada con Latour che talvolta resta appunto non radicato.

Parlando quindi di connesioni tra le specie e ricordando la splendida esperienza di Agripunk, cosa s’intende per «incontro etico» e in che modo può secondo te realizzarsi oggi? E come si collega al discorso che fai all’inizio del testo con Haraway sulla distinzione tra non uccidere e non rendere sterminabile, parlando del (presunto) benessere animale in determinati allevamenti?

In che modo non lo so, però senza dubbio la strada da percorrere è quella collettiva. Ad esempio, il vegano ti porta o a rimuovere o dover riflettere su quello che fai. Per l’onnivoro, “io” e “mio”, identità e proprietà vanno sempre insieme, misurando le cose partendo dalla proprietà, dall’identità e dal ragionamento. Non che il vegano non ragioni, però è come se si lasciasse totalmente fuori qualche cosa che ha che fare con una necessità di “mettersi con l’altro” e che fa avviare verso una strada di incontro. Dismettere l’esclusivo uso della ragione che è anche quello che avviene attribuito alle femministe. Sei troppo arrabbiata, ci viene detto, usi troppo le emozioni. Ma perché l’emozione non ha una sua logica? E poi c’è la questione del proprio. Perché devo considerare il corpo di un altro come mio? Che se vogliamo è il cuore del femminismo e dell’antispecismo, anche se oggi almeno in Italia una riflessione sul femminismo antispecista non è stata ancora fatta. O è una minoranza.

Al veganesimo sto pensando molto. A livello più che altro etico e politico e al motivo per cui ci rendiamo conto di star mangiando un essere senziente solo quando ci rendiamo conto – vedendolo – che è stato ucciso.

Non a caso tutta l’industria zootecnica e degli allevamenti intensivi nasce e cresce soprattutto in virtù dell’invisibilità. Non vediamo questi posti. Il che crea una vera e propria sconnessione.

Tornando invece al linguaggio. Si può dire che Haraway abbia de-costruito - e continui a farlo – un determinato linguaggio o modo di chiamare le cose, i rapporti. Forse azzardo, ma per concepire l’idea di un mondo nuovo, come fa la filosofa, non ci dovrebbe anche essere bisogno di un altro genere di linguaggio? Più “inclusivo”, riferendomi ai recenti dibattiti su asterisco e schwa, e meno legato a convenzioni e dogmi?

Assolutamente. Se una realtà deve essere immaginata in modo diverso, ha bisogno di parole diverse che non descrivano uno stato di fatto ma che inventino qualcosa di nuovo. La potenza del linguaggio è creativa e performativa, il che dovrebbe indurci a capire che teoria e prassi non sono così staccate. Il linguaggio sta nelle cose, per cui immaginare un nuovo linguaggio permette di immaginare mondi differenti.

Molto spesso ci dicono che il linguaggio è una sottigliezza…

Questo deriva senz’altro dalla tradizione dei dualismi, della separazione mente-corpo, e dell’arte e della scienza considerate come poli opposti. La scienza performa delle verità, non le rappresenta. Haraway smantella un linguaggio che serve a descrivere. Da qui i suoi neologismi, la sua sintassi anche respingente.
Mentre invece con l’asterisco, ad esempio, ho tradotto un saggio di E. Hayward e J. Weinstein Tranimalità nell’epoca della tran*svita, dove si parla di un “divenire trans” partendo da Deleuze e da un movimento che chiamano asterismo, moto del tendere verso l’altro. L’asterisco ha una forma di stella marina, è tentacolare: il “divenire trans” ha bisogno della relazione, di un completamento nell’alterità ed è un movimento continuo che non si lascia intrappolare.

Parlando di termini e linguaggio, come hai affrontato la traduzione delle specificità linguistiche che ritroviamo e che costellano in generale tutto l’immaginario di Haraway?

È una cosa su cui ho riflettuto molto. Ho cercato di far risuonare le parole nei testi e nell’evoluzione nel tempo. Ho letto tutta Haraway, oramai maneggio il suo vocabolario, ma ho cercato di rispettare al massimo neologismi e quando non ci sono riuscita ho sempre lasciato l’originale, in modo tale che si vedesse la scelta. La traduzione mi preme molto. Pensiamo al discorso coyote. In Manifesto Cyborg viene tradotto discorso da coyote (coyote discourse). Perché DA coyote e non coyote, dato che è come se fosse il linguaggio a diventare coyote. E per questo ho lasciato così. Ho sempre spiegato il mio posizionamento rispetto alla tradizione. Anche riguardo la scelta di “specie compagne” piuttosto che “compagni di specie”. Oppure oddkin (stringere legami di parentela non necessariamente umani o anche legami fra umani con persone con cui non siamo ancora in connessione) come lo traduci?

Strana parentela…?

Ma poi diventano due parole, quando in realtà è una sola.

Tra l’altro oddkin è proprio un termine che evoca altri mondi. È suggestivo e immaginifico.

Sì, è vero.

Ho letto di recente il tuo saggio sull’incorporazione delle intelligenze artificiali femmina da parte dell’immaginario fantascientifico recente apparso su Sex(t)ualities. Morfologie del corpo tra visioni e narrazioni curato da Silvia Antosa e Mirko Lino. In che modo per te si sono “adattati” i film di fantascienza ai temi e alle questioni di genere o quale genere cinematografico, se ce n’è uno?

È una domanda enorme. Secondo me un’attenzione all’identità di genere c’è ma solo di genere, come se non si riuscisse bene a intrecciare altre questioni, etnia, classe, a questa riflessione. Non in tutti i casi. Secondo me è più la narrativa che il cinema ad affrontare questi temi. È un po’ circoscritta come cosa. C’è anche ovviamente in Alien ma non si riesce ad andare oltre, a complicare o differenziare ancora l’identità di genere.

E sul modo in cui il cinema o la serialità guardano al queer?

Penso a Dispatches from elsewhere dove la protagonista è una donna trans e il regista è uno dei protagonisti di How I Met Your Mother. È molto fantascientifica, c’è la questione dell’identità di genere e ha un punto di vista comico. Una serie che amo è Transparent di Jill Soloway, inarrivabile. Come anche I Love Dick, sia libro che serie tv omonima.

Bestiario Haraway è acquistabile sostenendo il crowdfunding di Agripunk, rifugio antispecista che nasce dalla chiusura di un ex allevamento intensivo.

https://www.produzionidalbasso.com/project/bestiario-haraway-per-agripunk/

Federica Timeto insegna Sociologia delle arti all'Università Ca' Foscari di Venezia. Si occupa di teoria femminista e studi culturali con particolare attenzione ai nuovi media e alla visualità e alle intersezioni di femminismo e antispecismo. Ha pubblicato Culture della differenza (2008) e Diffractive Technospaces (2015). Fa parte del comitato di redazione della rivista "Studi Culturali" e della rivista antispecista "Liberazioni".

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