Una prima versione di questo articolo è uscito sul "manifesto" del 31 luglio 2020.

Finito, forse per il momento, stando a ciò che dicono i più prudenti, il tempo dell'ingollare profluvi di materiale cinematografico insieme a ogni tipo di farinaceo fatto in casa, in solluchero da lievito, chiusi in casa, in stanza (tendaggi), i cinema sprangati tant'è che anche un film atteso, poi risultato discusso come Favolacce dei D'Innocenzo lo si è visto sulle piattaforme, ora i film tornano ad animare i cinema che nonostante tutto restano i chiaroscurali, inalienabili santuari dell'immaginazione, e tra questi alcuni davvero magnifici, itinerari dentro ambagi psicofisiche, buchi neri, labirinti sonnambolici come High Life di Claire Denis e Long Day's Journey Into Night di Bi Gan.

E poi c'è Ema di Pablo Larrain, in sala dal 2 settembre, follia fosforica, fotosferica (a base di soli o di lunule di luce elettrica, tramonti infiammati, coiti al neon): qualcosa come un'apoteosi e un'apologia del caos passata lo scorso anno alla mostra di Venezia tra lo scetticismo, mi pare, proprio dei larrainiani più incalliti (devoti a cose come Il club), probabilmente delusi dall'assenza o quantomeno dal diradarsi del nichilismo, del senso mortuale di Larrain (il cafarnao di cadaveri, l'accatastamento di cose e carcame di Post Mortem, ecc.), cioè di una corporalità e un'umanità intese e filmate come carname, come un agire infimo, una gestica cupa, cupida, che poi sono gli elementi che uccidono il cinema e divengono oggetti di culto necrofilo più che cinefilo.

Ema invece è vitale (e venefica: a questo è giunto il “negativo” di Larrain, a venature di fiele esalanti dalla dolcezza di un corpo, effetti di una vitalità pericolosa, refrattaria dentro il non-senso del contemporaneo); è un corpo fatto per essere guardato, filmato mentre inscena le mosse, gli ammicchi del regaetton: tun-tatùn-ta, tun-tatùn-ta, tatùn, riproduce Gastón, un eccezionale Gael García Bernal intento in un'invettiva contro il regaetton di cui ci si ricorderà per anni: «è l'illusione della libertà, così le persone non pensano: sì, no, sesso, droga sì, eroina sì, orge sì, ma il giorno dopo cosa c'è? Devi andare a lavoro. E siete state convinte da qualcuno che muovendo il vostro piccolo bacino sarete più libere. Ma no, assolutamente no. È come dormire nel vuoto, vivere a Ibiza, prendere le proprie cose e andare a Los Angeles scattandosi selfie tutto il tempo».

Sono i codici di un dionisismo trasposto nel contemporaneo, le cifre di un palinsesto triviale, lascivo e terrificante interpretato dalle "ragazze del regaetton", che però suscita un piacere morboso in chi guarda, un desiderio d'immediata, insensata copula, come il piacere inconfessato che può secernere, colloidale, denso, dalle cose capitaliste, il bisogno malato di possederle. Ema è forse il primo dei personaggi di Larrain a essere amato (di un amore malato: ma esiste amore che non lo sia?) dal suo regista che fin'ora aveva esercitato ed esulcerato il suo ghigno beffardo sui metabolismi, proprio sulla pelle di Tony Manero, di Jackie Kennedy, di Neruda ecc..

Ed è per via di questo amore (problematico, vissuto sul pelo del corpo e non escluso a priori dal peso del carcame) che emerge la verità impenetrabile del film, cioè una stratificazione del senso a contraddizione spinta, un bilanciamento e controbilanciamento continuo del senso ultimo delle cose (quindi mai ultimo ma sempre momentaneo, passibile di conversioni, auto-parodie fulminee, nette, immediate confutazioni), che funziona cioè sotto la spinta continua della contraddittorietà dei personaggi, della loro totale instabilità, e di quella della scrittura cinematografica, dell'imprimitura data al film da Larrain: è la contraddittorietà come esito e propellente della condizione dell'amare (e del filmare). Nei Frammenti di un discorso amoroso Roland Barthes dichiara la propria contraddizione tra la credenza di conoscere l'altro (l'oggetto del desiderio) e la constatazione che quest'altro resta impenetrabile, sgusciante, intrattabile. E allora «non mi resta altro che volgere la mia ignoranza in verità. Non è vero che quanto più si ama, tanto più si capisce; ciò che l'azione amorosa ottiene da me è soltanto questa cognizione: nell'altro non c'è nulla da scoprire: la sua opacità non nasconde affatto un segreto, ma semmai una sorta di evidenza».

Tutto il film di Larrain è il frutto di quello che Barthes definisce uno «stimolo ad amare qualcuno che sia sconosciuto e che tale deve restare per sempre», un impulso mistico, cioè l'accesso alla «cognizione dell'inconoscibilità»: Larrain-Gastón si trova nella condizione mai sperimentata prima di amare un corpo (vivente e non carcassa), un essere imprevedibile, incontenibile, Ema che tracima di ottusa vitalità; si trova quindi in una condizione di ignoranza (e di impotenza) di fronte all'opacità della ragazza, alla sua evidenza pullulante di caos, a cui reagisce in preda alla contraddizione, detestando, deridendo quell'ignoranza, quella volgarità che si dispiega al ritmo di regaetton eppure non potendo fare a meno di amarla. Eleva questa contraddizione a sistema, a episteme: è appunto la cognizione dell'inconoscibilità dell'altro, il quale si estende in forza della sua evidenza, di un'effettualità pressante per cui i contrari coesistono, spesso nello stesso dialogo, nella stessa proposizione (Ema che insulta veementemente Gastón, la sua infertilità, eppure dopo pochi attimi gli dice “ti amo”); si scontrano in una fenomenologia di violenza verbale, di risentimento, che sono gli elementi fattivi di un sistema d'amore.

È un cinema di puri effetti in contrasto costante (le cui cause sono assenti o tuttalpiù intraviste); cinema di fisiologie, superfici, placche in collisione perenne, dal cui attrito sorge un'atmosfera ebbra, in-acido, in deliquio. Larrain, ubriaco d'amore (bramoso di una stupefacente Mariana De Girolamo), come uno Swann d'oggi segue, blandisce l'opacità sfrenata di Ema, vi si fa anche sinceramente commuovere (quando ad esempio lei incontra finalmente il figlio adottivo Polo a scuola); la cattura dentro sequenze oscillanti tra il delirio e l'ironico (spesso autoironico, conscio di questo amore vile) fino ad arrivare al videoclip (vera temperie del contemporaneo), ma vi si arrende, si ferma di fronte all'inafferrabilità e all'opacità di questa Odette traslata in un mondo di regaetton, e non può che restare a guardare.

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