«Sapere di essere, per quanto debolmente e in modo fallace, al di fuori di me, un tempo mi aveva commosso. Si diventa selvaggi, per forza. A volte c’è da chiedersi se siamo sul pianeta giusto. Anche le parole ci abbandonano, figuriamoci».
(Samuel Beckett, Lo sfrattato).
Cosa accade quando l’immagine supera i suoi limiti? Si fa liquida, deborda e si dichiara anarchica. L'immagine assume un corpo che è parte a sé, si distacca dal flusso filmico, si dilata e urla.
La musica techno martellante, di bassi assordanti e ritmi compulsivi, accompagna la deflagrazione dell’immagine, composta in quadri pop e anime nipponici; deliziosamente kitsch, la struttura visiva dell’opera della danese Annika Berg è un urlo munchiano punkeggiante.
Zara e le altre vivono in un universo pop, un’esplosione di colori saturi, fluorescenti, abbaglianti, ma sul fondo giacciono la tristezza, l'angoscia e l’isolamento di adolescenti contemporanei, che fluttuano smarriti in un mondo a loro sconosciuto. Rinchiuse in una sorta di sacca embrionale, le ragazze dello “Youth Club” danno una forma al loro essere, assecondando stimoli, pulsioni e correndo a fianco delle loro paure, fantasmi nascosti tra le pieghe della pelle, tra le ombre dell’anima, che rendono l’esistenza straziante.
Nell’epoca di Facebook e della decadenza di MTV è più semplice raccontarsi e svelare i propri dolori e fragilità parlando a uno schermo, avvolti nel buio e illuminati unicamente dalla luce di un telefono, un’emersione dalle tenebre della solitudine adolescenziale, del male di vivere, dei disturbi alimentari e dei dolori dell’anima.
L’adolescenza reclama i suoi spazi fisici e mentali, pretende attenzioni e cerca di liberarsi dal fardello granitico della fanciullezza per approdare all’età adulta, non senza dolore e sofferenza, come i Prigioni michelangioleschi, che tentano di emergere dalla roccia e impadronirsi di un corpo proprio.
I visi lunari, gli occhi sognanti, a volte spaventati, e le bocche desideranti sono racchiusi in inquadrature che riproducono i colori e gli effetti dei selfie da smartphone, dettagli scomposti in cerca di una propria forma, frammenti di esistenza in cerca di significati e destinazioni.
Il montaggio frenetico, tra tonalità accese e primissimi piani deformati da un obiettivo che diventa uno squarcio attraverso il quale osservare ed essere osservate, amplificano la sensazione di smarrimento trasmessa dai racconti delle ragazze; i video e le foto provano a catturare e raccontare l’identità dei giovani pesci che si affacciano nel mare della vita, muovendo le prime bracciate scoordinate, quasi in apnea, in un oceano in cui non è semplice navigare. La fluidità dell’acqua accompagna le giovani nello scorrere filmico; una piscina in cui è necessario un salvagente per rimanere a galla, i catini colmi di palline gelatinose, le lezioni di nuoto sincronizzato e le creazioni artistiche di Eja.
La liquidità evoca l’evanescenza della vita, ma anche la sua velocità, e così le immagini scorrono freneticamente, si accavallano, attraverso una sequela di studiate installazioni artistiche, sempre coerenti con uno stile visivo sperimentale e ricercato.
Lo sguardo della Berg racconta un’umanità eternamente connessa ma, paradossalmente, sempre meno capace di comunicare. Le kamikaze girls danesi di Team Hurricane, per alcuni aspetti, non sono poi così distanti, forse, da quelle di Tetsuya Nakashima, tra spettacoli di marionette, estetica sospesa tra il videoclip e i videogames eighties, raccontano il disagio giovanile, lottando sodali per difendere le loro idee, contro una società chiusa al diverso e poco propensa ad ascoltare, ma anche contro quegli adulti incapaci essi stessi di comprendere la realtà e indicare credibili coordinate alle nuove generazioni.
«La mia follia è misurata, non si vede: è subito che io ho paura delle conseguenze, di ogni conseguenza: ciò che è spontaneo è la mia paura - la mia indecisione» (Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso).