«Los versos del olvido parla della necessità etica di ricordare il passato e resistere alla violenza dell’oblio come forma di riscatto personale. Una riflessione sulla politica della memoria». È lo stesso regista, Alireza Khatami, a indicare la rotta di un film che procede come un percorso di stazioni lungo la linea delle celle mortuarie di un remoto obitorio disperso tra “il nulla e l'addio”.
Lì un anziano signore, predisposto all’ascolto delle voci atone intonanti canti muti di dolore, è custode non solo del luogo e quindi dei defunti ma anche delle loro storie: la sua missione è quella di sottrarle all’abisso del silenzio; del resto si sa, «la memoria umana – come scrive Primo Levi - è uno strumento meraviglioso ma fallace. È questa una verità logora».
Poco lontano scoppia una rivolta, i miliziani irrompono clandestinamente nell’obitorio per nascondere i cadaveri dei civili: è, di nuovo, il presentificarsi della Storia; ancora uno sterminio con le sue pratiche di rimozione: bisogna fare in modo che chi viene eliminato non sia, alla fine, mai esistito.
Il presente in cui procede questa odissea è, in realtà, una temporalità cangiante: accanto ai fatti che stanno accadendo, qui e ora, riverberano risonanze di memorie passate, echi di vite trascorse. Ecco quindi il perché tutti i personaggi sono senza nome, così come il luogo, che potrebbe essere qualsiasi posto al mondo, e il tempo, uno dei tanti già successi o di quelli che succederanno.
Sempre ci sarà qualcuno che s’imporrà su qualcun altro, cercando di condannarlo all’inesistenza. È il dolore degli sconfitti a esigere che venga lasciata una traccia della sua esistenza, solo salvandola dalla scomparsa è possibile dare alla sofferenza un’occasione di riscatto, facendo di questa testimonianza