altNella New York Public Library come At Berkeley, nella National Gallery come nelle strade di Jackson Heights, tornando indietro e indietro, sino alla Northeast High School di Philadelphia o ai corridoi del Bridgewater State Hospital di Titicut follies… il filo rosso che unisce ogni singola inquadratura di Frederick Wiseman è quel raccordo (im)possibile da cercare tra lo schermo e la vita. I protagonisti dei film di Wiseman siamo noi: individui immersi nella collettività che creano l’istituzione di diritti e di doveri.


Con la solita commovente dedizione Wiseman continua a inquadrare spazi-pubblici colti nel tempo-privato, rendendoli schegge significanti di un tutto. Le varie sedi della New York Public Library (ben 87) con i loro funzionari e i tanti visitatori, i loro dirigenti e i tanti insegnanti, si inseriscono in un discorso (filmico) che continua ad opporre uno sguardo etico sul mondo di granitica nettezza formale. Si ha quasi l’impressione che ogni singolo film sia concepito come capitolo di un libro più ampio, sulla cui ex libris di copertina possiamo immaginare annotata l’unica parola che conta per Wiseman: umanità. Una parola mai pronunciata direttamente perché sempre declinata nelle pieghe del montaggio, tra immagini e concetti, volti e oggetti, movimenti e stasi. Le singolarità colte nell’agire del/dal cinema diventano “la società”.

E allora: nella New York Public Library si presentano libri e cataloghi, si organizzano workshop e convegni, si studiano le lingue di un laboratorio multietnico e poi si ragiona di nascita dell’immagine, si discute su finanziamenti pubblici e privati, infine si approcciano i media digitali come nuove piattaforme di comunicazione. Ci si interroga, insomma: come sopravvive una biblioteca e il suo strutturatissimo ecosistema analogico (cresciuto e funzionalizzato nei decenni) alla digitalizzazione dei processi e alle mediatizzazione delle esperienze? Il cuore del film di Wiseman rimane anche qui la persona immersa nei processi sociali colti in divenire – i mutamenti urbanistici di Jackson Heights hanno lo stesso valore simbolico dei tablet che sostituiscono i libri cartacei –, quindi il grande schermo divenuto prima display e poi minidisplay si rimedia ma non perde un oncia di valore testimoniale. Insomma se il pixel sostituisce la carta (ex-libris…) facendo mutare l’esperienza e l’identità di un luogo, il fuoco dell’inquadratura rimane ostinatamente la vita social(e) contemporanea. Ecco che dopo quest’ennesimo racconto corale di impressionante lucidità – a proposito: sublimi quegli establishing shot che come virgole di linguaggio classico puntellano il fluire delle macrosequenze documentaristiche –, si esce dalla sala con un bagaglio di parole-e-pensieri che attendono nuovamente di farsi atti e sentimenti tangibili. Come? Attraverso un montaggio “politicamente” incompleto, mancante, che ci regala ancora oggi l’onere e l’onore di continuare noi a raccordare e disaccordare lo schermo alla vita.