altPiù una presenza olografica che una figura oleografica, un corpo che forza la sua bidimensionalità nella sagomatura sfuggente del suo essere assente a se stesso. Don Diego de Zama risuona nel film di Lucrecia Martel come uno spettro visivo che staziona fuori luogo nel Paraguay del XVIII Secolo, marionetta di un potere coloniale che lo ha dimenticato lì, disperso nell’attesa di un ritorno a Buenos Aires che non arriverà mai. Assenza perfettamente coerente col cinema della Martel, interamente costruito sulla distanza che separa il tempo vissuto e lo spazio abitato dai suoi personaggi in una divaricazione fluida, acquatica, dell’essere dall’esserci.


L’attesa è il principio dinamico dei film di questa regista argentina, sin dal suo esordio con La cienaga, passando per la laica santificazione forzata della Niña Santa, per arrivare alle amnesie morali della Mujer sin cabeza. In Zama la Martel desume dal romanzo di Antonio di Benedetto (1956, tradotto in Italia da Sur solo nel 2014) la narrazione di un presente immoto, che intrappola come in una rete la figura di un uomo bloccato in se stesso, spettro di una rappresentazione del mondo coloniale depotenziato nel tempo astratto della estraneità ontologica del loro esserci, gestori di un potere distante accettato dagli indigeni con passiva fatalità e irridente superiorità.

Don Zama, “el corregidor”, è poco più di una statuina sul comò di un mondo che lo guarda distrattamente. Il film stesso lo sopporta con malcelato fastidio, la Martel lo tratta più o meno come un intruso che attraversa l’inquadratura, disturbandola. Le sue pose altezzosamente impacciate, il gioco con la parrucca del potere, i movimenti un po’ meccanici lo rendono incongruo sia come presenza che come assenza. Il taglio dei quadri sembra spesso ignorare la sua presenza in scena, come fosse un suggeritore di battute entrato in campo per sbaglio. Ed è tutto un gioco di trappole che si aprono come botole sulla sua scena, inciampi che lo vedono costretto ad agire per poter fallire.

Il suo desiderare è rimandato come la sua partenza, utilizzato come motore di un potere dal quale dipende: sedotto dalle figure femminili che lo respingono, disperde la sua energia nel vanificato tentativo di rispondere a un mandato narrativo che non sa gestire. Zama è l’artefice di un potere che detta legge sul nulla, il narratore di una volontà lontana finita nella palude del tempo. Colori e tagli di campo appiattiscono come in un quadro la realtà, deformandola in una naïveté che dissimula tutto. Le mani infine mozzate di questo impotente potente, salvato dalla morte con l’inganno di quel bandito che è la sua nemesi, sono gli arti di un uomo senza arte né parte. Don Zama prigioniero della palude da cui proviene, eroe tragico di una tragedia senza catarsi.