Capita che alcun i film ritornino alla mente, in quello strano limbo tra memoria e sogno (e del resto, anche il sogno non si vive realmente, si ricorda soltanto) in cui le immagini persistono a prescindere dalla nostra volontà. Ad esempio, girando fra i padiglioni dell’Arsenale ci si imbatte in Grotta Profunda, Approfundita di Pauline Curnier Jardin, videoinstallazione (“a body for a film” recita la didascalia di presentazione di questo work in progress che dura da sei anni) che già nel suo allestimento è, con presuntuosa e tenera ingenuità, una reminiscenza della caverna platonica.
Ci sono ombre, phantasmata, mentre le invisibili e intangibili catene ce le trasciniamo quasi inconsapevolmente all’interno della spelonca: sono i legami con la durata e con il reale, e le conseguenti ansie strette allo scorrere dei minuti della visione, all’angoscia derivante dal non potersi permettere un impiego così dispendioso e in pura perdita del tempo. Se però la visione riesce a liberarci dalla durata facendoci accedere a una dimensione più approfundita (da non intendere assolutamente in senso metafisico, piuttosto cercando di trovare un doppio fondo nell’immagine, una dimensione separata dalla nostra quotidianità) allora si può anche riuscire a lasciar cadere le catene del tempo e iniziare una giocosa e fine a se stessa associazione di immagini.
Entri nella grotta, e basta un attimo per ripensare a Carmelo Bene e alla sua Salomé, e poi ad Arrabal, e da qui ricordarsi della visione de Les garçons sauvages di Mandico: film che è già collazione di citazioni, deja vu, da Yann Gonzalez a Fassbinder e, di nuovo (ecco forse il collegamento) ad Arrabal, fino a risalire al cinema della golden age di Hollywood. Les garçons prendono il mare e vanno alla ricerca di una loro perduta età dell’oro, approdano su un’isola che è tale solo perché dimensione separata dal reale, dove è possibile mettere su una performance audio video cara a certe tendenze postmoderne: montaggio pot-pourri di immagini in bianco e nero mixate con un tappeto di musica elettronica.
E però resta un rammarico, non solo per l’età e il tempo perduto, ma anche per un’occasione persa: se Biennale d’Arte e Mostra del Cinema dialogassero più strettamente (come avviene con la sezione dedicata alla realtà virtuale, seppure anch’essa separata, dislocata su un’isola, il Lazzaretto, separata dall’isola del Lido) avremmo chissà quali possibili associazioni, quali risultati insperati e inattesi – ed è forse questo che spaventa.
P. S.: in maniera del tutto incidentale, la necessità che cinema e videoarte possano e debbano entrare ancor di più in dialogo fra loro diventa se possibile ancor più nitida durante la visione di Drift, sempre in concorso nella Settimana della Critica. La parte centrale del film (stiamo parlando di decine di minuti) è letterale fluire, ondeggiare del mare e della camera che lo riprende. Sembra proprio di ritrovarsi dinanzi a un classico lavoro di videoarte, non monumentale come quelli di Plessi (presente alla Biennale di qualche anno fa con i suoi mari verticali) o estetizzante come quelli di Steve McQueen (sempre a Venezia vedemmo una sua traballante e annaspante opera acquatica) ma più simile alle sobrie installazioni del padiglione cinese di quest'anno all'Arsenale. Roba di nicchia, verrebbe da dire, eppure mare e cielo sono stati il primo spettacolo offerto dalla natura all'uomo, e da migliaia di anni il più bello.