Per quanto ci riguarda, la vera riflessione sulla società dell’immagine è Antiviral di Brandon Cronenberg. Piuttosto che veloce sociologia, il rampollo Cronenberg, che si mostra degnissimo di cotanto padre, compone un saggio filosofico sulla natura virale dell’immagine.
Riflessione potentissima sul mito dell’origine, o della sua assenza, il film, pur omaggiando il genitore (con la presenza dell’inquietante Nicholas Campbell, il killer de La zona morta), è un esempio di cinema come non se ne vede poi tanto in giro. Brandon Cronenberg gira con la sicurezza e la maturità di un veterano. Il candore del suo film, discendente diretto del primo film di Lucas, degrada con grande accortezza in un realismo urbano ruvido nel quale la vertigine di un mondo astratto, igienizzato, inscritto in una prospettiva igienista e concentrazionaria s’affaccia su un controcampo di junkies burroughsiani. Vivere la propria vita attraverso un virus che reca l’immagine della vita degli altri. Possedere le malattie degli altri. Vivere la morte degli altri. Raramente il cinema, dopo Videodrome, ha prodotto un commento tanto potente e preciso sul mondo come immagine e spettacolo. Brandon Cronenberg compone una sinfonia per un virus in cerca d’autore che risuona di inquietanti echi ambient. L’immagine è il virus. E il virus è l’immagine. E ciò che resta è solo il senso di un’insopprimibile assenza.