(Traduzione a cura di Giovanni Festa)
Da un capo all'altro del suo itinerario, il cinema di Pedro Costa è attraversato dalla notte; ma vale anche il contrario: la notte attraversa il suo cinema. Questa condizione umbratile penetra a tal punto nel nucleo centrale della messa in scena che alcuni dei suoi primi film, sebbene non si svolgano interamente dentro tempi e spazi notturni, tendono a essere ricordati dallo spettatore come invasi interamente dalle ombre della notte. Sorprendentemente, quando si rivedono O Sangue (1989), Casa de Lava (1994) o anche Ossos (1997), si nota invece che non poche sequenze trascorrono all'aperto e in pieno giorno.
Ma la poetica di Costa fa si che questi momenti, anche se cruciali in termini drammatici, vengano definiti come intervalli dentro una notte che si ingigantisce, che sembra ricoprire per intero questi film fino a tingerli completamente di nero, al di là delle loro differenze. È un cinema, quello di Costa, che è passato dall'attento formalismo del primo film, a un'apertura a riprese in location dal vero, fino a un contenimento formale che ha iniziato a incidere in Ossos, film che segna il passaggio dal bianco e nero al colore, e da troupe cinematografiche convenzionali ad altre più leggere, annunciando l'opzione radicale delle riprese digitali di O cuarto da Vanda (2000). Tutte queste variazioni sono avvenute senza perdere mai di vista la predilezione per i tempi e gli spazi della notte, come se essa non potesse abbandonare mai completamente i personaggi.
Agli inizi del cinema di Pedro Costa, i riferimenti cinefili e un certo barocco visivo che dominava O Sangue, o una raffinata arte dell'inquadratura in Casa de Lava, conferivano un posto privilegiato ad alcuni registi-precursori al quale Costa alludeva esplicitamente. Questo gruppo, sebbene diversificato, condivideva una caratteristica comune: si trattava di grandi creatori, all’interno della storia del cinema, di forme notturne. Tra loro ci sono maestri lontani nel tempo e di grande prestigio, i cui inizi risalgono al periodo del muto: Friedrich Murnau, Carl Dreyer, Kenji Mizoguchi o John Ford. Sono, però, riferimenti poetici di Costa anche grandi cineasti di B-movie o di film di genere come Jacques Tourneur o Edgar Ulmer, rinnovatori americani come Nicholas Ray e persino alcuni film specifici come The night of the hunter, di Charles Laughton (di cui O Sangue è una rilettura, così come Casa de Lava lo è di I Walked with a Zombie, di Tourneur).
Da questa eredità la cui coerenza è stata costruita attorno al modo di filmare la notte come spazio e tempo cinematografico fondamentale, Costa ha trasportato situazioni e procedimenti visuali facendoli propri. Così, insieme ad altre influenze come quella di Robert Bresson, la summenzionata ispirazione fordiana (un Ford opportunamente notturno, intriso di Kammerspielfilm) fece sì che il cineasta cominciasse a delineare le sue incursioni dentro una prolungata notte cinematografica, che durante un transito di tre decenni raggiungerà limiti estremi nel dittico che compone i suoi ultimi due film, Cavalo Dinheiro (2014) e Vitalina Varela (2019).
Se O quarto da Vanda (2000) ha costituito una svolta radicale nella cinematografia di Costa in termini di spopolamento dell'artificio e di adozione di strategie ibride tra finzione e documentario, la struttura della notte rimane la vera e propria matrice fondatrice del regista. Vi è, d'altra parte, una predilezione crescente per le riprese in interni, luoghi che appena riescono a essere rifugi, assediati non solo all'esterno ma anche dalla loro stessa decrepitezza o precarietà. Sono le case di Fontainhas in O Cuarto da Vanda, che resistono a malapena alla fitta caduta della pioggia o attendono la demolizione che cancellerà l'insediamento dalla mappa urbana di Lisbona. È la dimora, incompiuta e mal costruita dal marito defunto, dove risiede Vitalina Varela e il cui tetto sembra minacciarla più che proteggerla.
Fuori può essere giorno o notte, ma dentro - nelle stanze, nelle anime - è sempre notte. Juventude, il complesso residenziale nel quale sono stati trasferiti coloro che erano stati abitanti di Fontainhas, è percepito come uno spazio ostile, quasi inabitabile, la cui luminosità ha raddoppiato il carattere scaleno delle sue linee edilizie e lo stato di esilio violento a cui sono confinati i suoi residenti. A quel punto l'insediamento di Fontainhas, nella periferia di Lisbona, che a partire da Ossos era stata la cornice privilegiata per diversi film di Costa, e uno spazio per la notte perenne delle sue creature, era solo un ricordo: il regista, dopo il suo smantellamento, è stato costretto a cercare altre soluzioni per perseverare nella sua ricerca notturna. Ricordando una premessa di Trakl che gli piace ripetere, non ha smesso di annerire l'oscurità per vedere meglio.
In Vitalina Varela il regista rompe con l’idea di filmare solo in luoghi reali, come inaugurato due decenni prima con Ossos e la scoperta dell'universo di Fontainhas. Nel suo ultimo film Costa torna a girare in un ambiente controllato, artificio spaziale che aveva esplorato principalmente in O Sangue. Ci sono piani, in questo film, che sono stati girati in studio, la cui scenografia non a caso imita i labirinti e gli spazi oppressivi di Fontainhas. A volte, una stradina e una lanterna, come nei film di serie B di Ulmer, delineano la porzione visibile di uno spazio che sprofonda in una notte che divora tutto. Inoltre in alcuni passaggi Costa ha fatto ricorso all'uso di effetti speciali, intarsi di sfondi per mezzo di insolite riprese con schermo verde, come accade in una sequenza sorprendente in cui Vitalina cerca di riparare il tetto crollato della sua casa sotto un vento intenso che è anche, come nella vecchia Hollywood, un vento di studio ottenuto con l’ausilio di grandi ventilatori. Tutte queste decisioni consentono di estendere il potere dell'oscurità, l'insondabile sfondo notturno che fa si che ogni emersione di un personaggio sullo schermo si converta in una vera e propria apparizione.
Questa notte ritratta da Pedro Costa è una notte cinematografica, ma è anche una notte del mondo. Attraverso una miscela di realismo e artificio che riprende la tradizione più artigianale delle riprese in studio, che resero le carenze di produzione il motore per una serie di invenzioni che raddoppiarono il potere dell’assenze e dell’oscurità, le immagini di Costa esercitano, d'altra parte, una vera critica del cinema contemporaneo e delle sue relazioni con il mondo in cui viviamo. Questo non con testimonianze frontali, e ancor meno utilizzando le forme della denuncia, ma attraverso ricordi enigmatici ed oscuri presagi, sebbene in essi non manchi il fragile lampo della speranza che brilla in un combattimento incerto. Dato il virtuosismo della sua messa in scena, vale la pena ricordare che Cavalo Dinheiro è stato girato da Costa con mezzi poverissimi: una fotocamera digitale dalle prestazioni limitate, senza sceneggiatura e con una produzione completamente al di fuori dalle strategie del cinema convenzionale, addirittura inferiore a quello del cinema chiamato “indipendente”.
Vitalina Varela superò un poco queste limitazioni e, al di là dei citati artifici della sua messa in scena, poteva contare su una migliore macchina da presa e una squadra di tecnici leggermente più numerosa, in cui si distingue il grande contributo del fotografo Leonardo Simões, che accompagna il regista da Juventude in movimento. Se in quel film il protagonista, Ventura, girovagava in pieno giorno, spostandosi da esterni ostili e iper-assolati agli interni svuotati del complesso residenziale dove erano stati trasferiti quelli che erano stati gli abitanti di Fontainhas, in Cavalo Dinheiro questa erranza viene dilatata tra i corridoi e le sale fatiscenti di un ospedale. Ventura incontra altri esseri in un limbo fondamentalmente notturno, ricordando il cavallo che aveva chiamato Denaro, animale che rimase a Capo Verde in balia degli avvoltoi. In questo presente si può solo sopravvivere in un isolamento che senza fare appello a un tempo specifico permette di intravedere la notte permanente.
A un certo punto il protagonista condivide l'ascensore, in un percorso più storico che spaziale, più interno che esterno, con la statua vivente di un soldato, tanto immobile quanto minacciosa, con cui affronta i ricordi e le paure di tutta una vita prolungata in un lunga notte.In Vitalina Varela, l’esilio di Ventura, nel ruolo di un sacerdote i cui parrocchiani sono scomparsi, è ugualmente notturno e intenso, sebbene ceda, nella sua condizione drammatica laterale, allo stato di transito che anima la protagonista del film. Se Ventura vive in una notte definitiva, Vitalina la attraversa fin dal suo ingresso in scena, scendendo da un aereo dopo un atterraggio notturno misterioso e quasi cerimoniale. C'è una connessione sostanziale ed enigmatica tra i racconti cinematografici e la notte. Michel Chion una volta ha osservato che nella storia del cinema ci sono molti più film che finiscono all'alba, rispetto a quelli il cui scioglimento si situa al crepuscolo. Come se attraversare la notte fosse una possibilità più ricorrente, più promettente in termini narrativi, oltre che più pericolosa: l'esperienza cinematografica stessa appartiene a un ambito che è quello notturno. Il cinema di Pedro Costa sarebbe la manifestazione più chiara di questa inclinazione, e Vitalina Varela, anche attraverso l’immobilità dei suoi personaggi, intraprende un movimento di transito che designa, tanto o più di uno spazio, un tempo proprio del notte.
A questo punto della filmografia di Costa si può vedere che ciascuno dei suoi film sembra consistere in capitoli successivi di un cinema in marcia, o in una ripresa di sequenze di un cinema precedente che attraversano una lunga notte. L'episodio di Ventura con il soldato di Cavalo Dinheiro è stato, inizialmente, un cortometraggio all'interno del film collettivo Centro Histórico, così come la storia di Vitalina Varela è abbozzata in un segmento del film precedente dalla sua stessa protagonista.
All'interno di ogni film opera anche una certa logica frammentaria: le diverse parti si scontrano, la connessione temporale diventa equivoca, si passa da un clima immaginario a effetti documentali, e quello che era stato postulato come racconto si trasforma in performance che mette in attesa la narrazione, come un'intera sequenza musicale in Cavalho Dinheiro o diversi segmenti di rituali funebri, sviluppati in dettaglio, in Vitalina Varela. Queste derive sono giustificate da una poetica del trance, che abita ipnotica e crescente i film di Costa da Juventud en marcha, che Cavalo Dinheiro approfondisce, e che nel film più recente, diventa prassi ancora più estrema.
A proposito di O quarto da Vanda, o agli inizi del ciclo di Ventura con Juventude en marcha, nonostante le prove del suo virtuosismo formale, il regista ha affermato con insistenza che il suo cinema era inscritto all'interno di una tradizione realista. Senza dubbio si trattava di uno strano realismo, perforato dall'interno, il cui più grande esponente, disse, era Luis Buñuel.
Non si trattava di un realismo rispettoso delle trame di una realtà dominante, ma consisteva in una vera politica di confronto con le oscurità del reale, come se questa strategia di contatto con il reale attraverso l'immersione in un'oscurità visiva corrispondesse al tentativo di addentrarsi in un'oscurità esistenziale: in questo modo, insediarsi nelle estensioni temporali e spaziali del notturno fu una conseguenza necessaria. In un breve studio dedicato alla poetica di Costa, Adrian Martin ha sottolineato l'importanza di una risorsa formale che Raymond Bellour aveva rilevato nei film di Jacques Tourneur (che il portoghese considera fino ad oggi come uno dei suoi principali ispiratori) e la cui opera era un vero e proprio manifesto dell'oscurità sullo schermo.
Bellour sottolineava come Tourneur filmasse i suoi attori immobili, come figure statiche che apparivano dall'interno dell'oscurità e in essa si dissolvevano, piuttosto che avvicinarsi o allontanarsi. In Tourneur la lotta tra luce e ombra si impone, così, nella percezione stessa del movimento e l'immagine cinematografica più che essere soggetta al movimento, si trova implicata in un regime temporaneo di apparizione e scomparsa su uno sfondo di oscurità. Allo stesso modo, sebbene intensificato per renderlo un segno di stile evidente, si muove il cinema di Pedro Costa. Dagli ingressi o dalle uscite nella nebbia notturna che in O Sangue indiscutibilmente facevano pensare a Mizoguchi o Murnau, nella permanenza dentro gli ombrosi interni del ciclo di Fontainhas, fino ai suoi ultimi film, il procedimento adottato per entrare o uscire dall'oscurità rinvia principalmente a Tourneur.
In un passaggio di Vitalina Varela, Ventura assicura alla protagonista che i capoverdiani provengono dalle ombre. E infatti, all'interno di ogni anfratto, o in ogni stanza, i personaggi abitano solo temporalmente le aree illuminate, circondati dall'oscurità più intensa. Lo stesso, ricorda Costa, accadeva in Fontainhas: un mondo in cui sembrava sempre essere notte, anche nelle ore diurne. E così è la casa mal costruita di Vitalina, dove le finestre lasciano entrare a malapena la luce dall'esterno, dove ogni soglia acceca con il suo stipite per sbattere contro le teste mentre il tetto sta crollando a pezzi. In alcune sequenze il regista ottiene queste stesse situazioni in scenari naturali mentre in altri, per la prima volta dopo tempo, ricorre alle riprese in studio, realizzando una sorta di Fontainha stilizzato dalla memoria, forse più sognato che vissuto da sveglio. Ciò fa si che in Vitalina Varela il tempo della notte e della sua articolazione sia assai incerto. È, questo, il tempo del sonno e dell'insonnia, di vite sull'orlo della morte o addirittura tramutate in esistenze spettrali. E tuttavia, in ciascuna di esse qualcosa di vitale resiste ancora, e alcuni legami si insinuano, misteriosi e tesi, saldamente, nell'oscurità. Se c'è amore, Vitalina mormora a un certo punto, le cose devono funzionare.
Cinque anni fa, ai tempi di Cavalo Dinheiro, Pedro Costa paragonò l'intensità drammatica ottenuta nei piani del film (fatta eccezione della componente religiosa) con quella della tradizione iconografica occidentale delle Annunciazioni. Se, da un lato, Cavalo Dinheiro era il compendio di un intero ciclo della sua cinematografia, annunciava anche la possibilità di una tappa differente. Il film compie una svolta cruciale quando Ventura inizia a condividere lo spazio, nel film e sullo schermo, con Vitalina Varela. Se il volto e lo sguardo di Vitalina sono ipnotici quanto quelli di Ventura, il suo rapporto con la voce e la parola sono radicalmente diversi. Le espressioni di Ventura, tra il mormorio e l'urlo, intervallate da silenzi significativi e pesanti, contrappuntano con le parole quasi sussurrate di una Vitalina che parla sempre temendo che qualcuno, ascoltandola, la riporti a Capo Verde.
È la voce di qualcuno senza documenti, che è obbligato alla permanenza nel regno delle ombre. Se con Ventura si sospettava l'intensità di un passato (sebbene potenziato dalla memoria) per poi evidenziarne l'attuale caduta, Vitalina, i cui ricordi non sono meno intensi, sperimenta (in Cavalo Dinheiro e nel film che porta il suo nome) una trance che non ha completamente rinunciato alla dimensione di un futuro, sebbene questo sia totalmente opaco perché visto attraverso un presente travagliato dalla notte infinita del lutto.
Vitalina Varela compone un potente dittico notturno con Cavalho dinheiro ed è senza dubbio la parte più buia di un percorso ossessionato dalla notte. Nello stesso tempo lascia che si affacci, attraverso qualche crepa, un brandello luminoso, un qualche fugace raggio di luce che colpisce lo schermo. Vitalina, già dalla sua prima apparizione, annuncia un nuovo ciclo nel cinema Costa, con il suo sguardo carico di reminiscenza e di presagio.
Il regista inizia a concentrarsi non più così tanto sulla memoria di Ventura, né tenta un ritratto al tempo presente attraverso le sue evoluzioni in una notte trasfigurata. Al contrario, le immagini e i suoni cominciano a tendersi verso ciò che la trance, anche dentro un orizzonte inquietante, riesce a trasfigurare. Vitalina Varela estende e approfondisce quel transito attraverso la notte come periodo di lutto, ma allo stesso tempo mette in relazione la luminosità di un ricordo di Capo Verde (visualizzato nei magnifici piani finali alla luce di una giornata fantastica, legata alla costruzione e ricostruzione di sentieri domestici, a un ricordo e aun evento in corso) con la vita che prosegue in Portogallo. Per la prima volta qualcosa, né più né meno che un tetto, inizia a essere riparato.
Sempre a rischio, dal momento che si tratta di un cinema di sopravvissuti, e sopravvissuto esso stesso mentre continua con le lunghe tradizioni del secolo precedente, Vitalina Varela, anche più di Cavalo Dinheiro, permette di avvistare, nella notte cupa dove entrambi si muovono, quel saluto ad un'alba cinematografica che nel 1921 formulò il giovane Jean Epstein. A modo loro, queste incursioni estreme nella notte del cinema non cessano di annunciare un nuovo "bonjour cinema". Quello di Pedro Costa, senza smettere di rendere un tributo costante ai vecchi maestri, è anche un cinema che punta ad una rifondazione della sua stessa potenza. Un cinema che estrae la sua forza dalla sua stessa fragilità, e che, partendo da essa, fa uso cosciente della sua libertà e decide il suo futuro.
Travesía nocturna. El cine de Pedro Costa
De un extremo a otro de su itinerario, el cine de Pedro Costa está atravesado por la noche. Lo inverso también vale: la noche atraviesa su cine. Esta condición es integrada al núcleo central de su puesta en escena de tal manera que algunas de sus películas tempranas, si bien no transcurren totalmente en tiempos y espacios nocturnos, tienden a ser recordadas por el espectador como invadidas íntegramente por las sombras de la noche. Sorprende, al revisar las iniciales O Sangue (1989), Casa de Lava (1994) o incluso Ossos (1997), advertir que no pocos pasajes transcurren al aire libre y a plena luz del día. Pero la poética de Costa hace que esos momentos, incluso siendo cruciales en términos dramáticos, queden delimitados como intervalos entre una noche que se agiganta, que parece abarcar la totalidad de esos films y que los tiñe por completo, más allá de sus diferencias. Se trata de un cine que fue desde el cuidado formalismo del primer film, hacia el inicio de una apertura al rodaje en locaciones disponibles en los sucesivos y hacia cierta contención formal que comenzó a incidir en Ossos. Que pasó del blanco y negro al color, y de equipos de rodaje convencionales en fílmico a otros más livianos, y que anunciaba la opción radical por el rodaje digital de O quarto da Vanda (2000). Todos estos movimientos se sucedieron sin abandonar esa predilección por los tiempos y espacios de la noche, como si ella nunca dejara a sus personajes.
En los comienzos del cine de Pedro Costa, las referencias cinéfilas y cierto barroquismo visual que dominaba en O Sangue, o un refinado arte del encuadre en Casa de Lava otorgaban un lugar privilegiado, en tanto precursores, a ciertos realizadores que el cineasta no se privaba de aludir explícitamente. El conjunto, si bien diverso, compartía un rasgo común: todos esos ancestros coincidían en ser grandes creadores de formas de lo nocturno a lo largo de la historia del cine. Entre ellos había maestros lejanos, de largo prestigio, cuya obra se remontaba al período mudo: Friedrich Murnau, Carl Dreyer, Kenji Mizoguchi o John Ford. Pero también fueron referentes poéticos de Costa grandes cineastas ligados a la clase B o a films de género como Jacques Tourneur o Edgar Ulmer, renovadores americanos como Nicholas Ray, o incluso ciertos films específicos como The Night of the Hunter, de Charles Laughton (del que O Sangue es una relectura, como lo es Casa de Lava de I Walked with a Zombie, de Tourneur). Desde ese legado cuya consistencia se construía en torno a maneras de filmar la noche como espacio y tiempo cinematográfico fundamental, Costa transpolaba situaciones y procedimientos visuales haciéndolos propios. De ese modo, a la par de otras influencias tempranas como las de Robert Bresson, la citada inspiración en John Ford (un Ford adecuadamente nocturno, imbuído de Kammerspielfilm) hizo al cineasta delinear sus incursiones en una prolongada noche cinematográfica, que a lo largo de un tránsito de tres décadas avanzaría hasta límites extremos en el díptico que configuran sus dos últimos films, Cavalo Dinheiro (2014) y Vitalina Varela (2019).
Si O quarto da Vanda (2000) comportaba un giro radical en la cinematografía de Costa en términos de un despojamiento de artificios y la adopción de estrategias híbridas entre la ficción y el documental, el marco de la noche permaneció como matriz fundante en el cineasta. Hay en Pedro Costa, por otra parte, una creciente predilección por el rodaje en interiores. Lugares que apenas son refugios, asediados no solamente por el exterior sino también por su propia decrepitud o precariedad. Son las casas de Fontainhas en O cuarto da Vanda, que apenas resisten la caída de la lluvia intensa o que esperan el embate de la demolición que borrará el asentamiento del mapa urbano de Lisboa. Es la morada, sin terminar y mal construida por su marido muerto, donde reside Vitalina Varela, y cuyo techo parece más amenazarla que protegerla. Afuera podrá ser de día o de noche, pero adentro —en los cuartos, en las almas— siempre es de noche. En Juventude en marcha el complejo habitacional al que han sido trasladados quienes habían sido habitantes de Fontainhas es percibido como un espacio hostil, casi inhabitable, cuya luminosidad redobla el carácter cortante de sus líneas edilicias y el estado de desplazamiento vital al que confina a sus residentes. El asentamiento de Fontainhas, en los suburbios lisboetas, ya era solamente un recuerdo para entonces. Había sido desde Ossos el escenario privilegiado de varios films de Costa, un espacio para la noche perenne de sus criaturas, pero Costa desde su desmantelamiento ha probado otras soluciones para perseverar en esa búsqueda nocturna. Haciendo suya una premisa de Trakl que gusta repetir, el cineasta no ha cesado de oscurecer la oscuridad para ver mejor.
En Vitalina Varela el cineasta rompe con la decisión de filmar sólo en locaciones reales que había iniciado dos décadas atrás en Ossos, cuando su descubrimiento del universo de Fontainhas. En este último film Costa vuelve a la filmación en un estudio controlado, el artificio espacial que exploró principalmente en O Sangue. Hay planos en este film que fueron rodados en estudio, cuyos decorados remedan los laberintos y espacios opresivos de Fontainhas. Por momentos, un camino y un farol, como ocurría en las ficciones clase B de Ulmer, delinean la porción visible de un espacio que se hunde en una noche que devora todo. Más aún, en algunos pasajes Costa recurrió al uso de efectos visuales, incrustaciones de fondos mediante un inusual rodaje con pantalla verde, como ocurre en un sorprendente pasaje donde Vitalina intenta reparar el derruído techo de su casa bajo un viento intenso que además es, como en el viejo Hollywood, un viento de estudio obtenido con grandes ventiladores. Todas esas decisiones conducen a extender el poder de la oscuridad, el fondo de noche insondable desde el cual cada surgimiento de un personaje en pantalla se convierte en una verdadera aparición. Esa noche retratada por Pedro Costa es una noche del cine, y también es una noche del mundo. Mediante una mixtura de realismo y artificio que retoma la tradición más artesanal del rodaje de estudio, que hacía de las carencias de producción el motor para la invención de formas que redoblaban el poder de las ausencias y las oscuridades, las imágenes de Costa ejercen, por otra parte, una verdadera crítica del cine contemporáneo y de su relación con el mundo en que vivimos. No lo hace desde el testimonio frontal, menos aún desde la denuncia, sino desde los recuerdos enigmáticos y mediante oscuros presagios, aunque en ellos no falte el frágil destello de una esperanza sostenida en un combate incierto. Ante el virtuosismo de su puesta en escena, vale la pena recordarlo: Cavalo Dinheiro fue filmado por Costa con un mínimo equipo realizativo, con una cámara digital de prestaciones limitadas, sin guion y con una producción de estructura ajena al cine convencional, incluso menor a la del cine llamado independiente.
Vitalina Varela apenas superó similares restricciones, más allá de incursionar en los artificios citados de su puesta en escena, de contar con una mejor cámara y un equipo humano un poco más numeroso, en el que destacó el gran aporte del fotógrafo Leonardo Simões, que viene acompañando al director desde Juventude en marcha. Si en aquel film su protagonista Ventura deambulaba a plena luz del mediodía, por exteriores hostiles y tan asoleados como despojados interiores del complejo habitacional donde fueron relocalizados los que habían sido habitantes de Fontainhas, en Cavalo Dinheiro esa errancia se dilataba por los pasillos y salas ruinosas de un hospital. Ventura encontraba otros seres en un limbo fundamentalmente nocturno, recordaba a aquel caballo suyo que había llamado Dinero, ese animal que quedó en Cabo Verde a merced de los buitres. En ese presente, sobrevivía en una reclusión que sin apelar a un horario específico dejaba entrever la noche permanente. En cierto tramo el protagonista compartía un ascensor, en un trayecto más histórico que espacial, más interior que exterior, con la estatua viviente de un soldado, tan inmóvil como amenazante, con quien confrontaba los recuerdos y temores de toda una vida extendida en una larga noche.
En Vitalina Varela, el confinamiento de Ventura, interpretando a un sacerdote cuya feligresía se ha desvanecido, es igualmente nocturno e intenso, aunque cede en su condición dramática lateral al estado de tránsito que anima a la protagonista del film. Ventura habita una noche definitiva, Vitalina la atraviesa desde su misma entrada en el film, bajando desde un avión en un misterioso y casi ceremonial aterrizaje nocturno. Hay una conexión sustancial y enigmática entre los relatos cinematográficos y la noche. Alguna vez Michel Chion observó al pasar que en la historia del cine son muchas más las películas que terminan al amanecer, que aquellas cuyo desenlace se localiza en un crepúsculo. Como si atravesar la noche fuera una posibilidad más recurrida, más promisoria en términos narrativos, como también más peligrosa, tal vez indicando que la misma experiencia del cine pertenece a un ámbito nocturno. El cine de Pedro Costa sería la manifestación más rotunda de esta inclinación, y Vitalina Varela, aún con esa inmovilidad que insiste en sus personajes, se embarca en ese estado de tránsito que designa, tanto o más que un espacio, un tiempo propio de la noche.
A esta altura de la filmografía de Costa puede apreciarse que cada película suya parece consistir en sucesivos capítulos de un cine en marcha, o una retoma de rodajes anteriores que atraviesan una extensa noche. El episodio de Ventura con el soldado de Cavalo Dinheiro fue, en un primer momento, un corto dentro del largometraje colectivo Centro Histórico, así como la historia de Vitalina Varela es esbozada en un segmento del film anterior por su propia protagonista. Pero también en el interior de cada film opera cierta lógica de fragmentos. Las distintas partes de cada película colisionan, la conexión temporal se hace equívoca, pasan de un clima ficcionalizante a efectos documentales, o bien se postulan como relatos para luego girar a performances que ponen en suspenso a la narración, como lo hace una entera secuencia musical en Cavalho Dinheiro o varios segmentos de rituales funerarios, atendidos en detalle, en Vitalina Varela. Esas derivas están justificadas por una poética de trance, que habita hipnótica y crecientemente sus films desde Juventud en marcha, que Cavalo Dinheiro ahonda y que en el film más reciente se hace aun más extrema.
A propósito de O quarto da Vanda, o en los inicios del ciclo de Ventura con Juventude en marcha, a pesar de la evidencia de su virtuosismo formal, Costa declaraba insistentemente que su cine se inscribía en una tradición realista. Sin duda se trataba de un realismo extraño, perforado desde dentro, cuyo mayor exponente, precisaba el director, era alguien como Luis Buñuel. No se trataba de un realismo respetuoso de los designios de una realidad mandatoria, sino que consistía en una verdadera política de cotejo con las oscuridades propias de lo real. Como si esa estrategia de confrontación con lo real mediante la inmersión en una oscuridad visual se correspondiera con el intento de adentrarse en una oscuridad existencial. De ese modo, el asentamiento en las extensiones temporales y espaciales de lo nocturno fue una consecuencia necesaria. En un breve estudio dedicado a la poética de Costa, Adrian Martin puntualizaba la importancia en su cine de un recurso formal que Raymond Bellour había detectado en las películas de Jacques Tourneur, cuya obra fue un verdadero manifiesto de la oscuridad en pantalla, y que el portugués sostiene hasta hoy como uno de sus inspiradores centrales. Bellour resaltaba cómo Tourneur filmaba a sus actores inmóviles, como una suerte de figuras estáticas que aparecían desde la oscuridad y en ella se disolvían, antes que acercarse o alejarse.
El combate entre la luz y la sombra se impone a la mismísima percepción del movimiento. La imagen cinematográfica está allí no tanto sometida al movimiento sino a un régimen temporal de aparición y desaparición sobre un fondo de oscuridad. Del mismo modo, aunque intensificado hasta hacerlo una marca de estilo evidente, procede el cine de Pedro Costa. Desde las entradas o salidas en la niebla nocturna que en O Sangue remitían indiscutiblemente a Mizoguchi o Murnau, en la permanencia en los interiores sombríos del ciclo de Fontainhas, hasta llegar a sus últimos films, el procedimiento de entrar o salir de la oscuridad en los films de Costa arraiga fundamentalmente en Tourneur.
En un pasaje de Vitalina Varela, Ventura asegura a la protagonista que los caboverdeanos proceden de las sombras. Y, de hecho, en el interior de cada casilla, o en cada habitación, los personajes habitan sólo temporalmente zonas iluminadas de ese espacio, y del cuadro de la pantalla, rodeados de la más intensa oscuridad. Eso mismo, recuerda Costa, era Fontainhas: un mundo donde siempre parecía ser de noche, incluso en las horas del día. Y así es la casa deficientemente construída que habita Vitalina, donde las ventanas apenas dejan filtrar la luz del exterior, donde cada puerta interior acecha con su marco para golpear cabezas y el techo se va cayendo a pedazos. En algunos tramos el cineasta obtiene esa situación en escenarios naturales. En otros, por vez primera en un largo tiempo, recurre al rodaje en estudio, logrando una suerte de Fontainhas del recuerdo, estilizada, acaso más soñada que vivida despierto. Eso hace que en Vitalina Varela el tiempo de la noche sea altamente incierto en sus articulaciones. Es tiempo de sueño e insomnio, de vidas al filo de la muerte o incluso transmutadas en existencias fantasmales. No obstante, en ellas algo vital resiste, y se insinúan algunos lazos tan misteriosos como tendidos firmemente en la oscuridad. Si hay amor, murmura en algún momento Vitalina, las cosas deben funcionar.
Hace un lustro, en tiempos de Cavalo Dinheiro, Pedro Costa comparó la intensidad dramática obtenida en los planos del film (exceptuando el componente religioso) con aquella propia de la tradición iconográfica occidental de las Anunciaciones. Si por una parte Cavalo Dinheiro se erigía en compendio de todo un ciclo de su cinematografía, también anunciaba la posibilidad de una etapa diferente. La película sufría un giro crucial cuando Ventura comenzaba a compartir espacio, en el film y en la pantalla, con Vitalina Varela. Si la efigie y mirada de Vitalina eran tan hipnóticas como las de Ventura, su relación con la voz y la palabra era radicalmente diferente. Las elocuciones de Ventura, entre el murmullo y el grito, intercaladas de significativos, pesados silencios, contrapunteaban las palabras casi susurradas de una Vitalina que hablaba siempre temiendo que alguien, al oírla, la retornase a Cabo Verde. Era la voz de alguien sin papeles, que requería la permanencia entre las sombras. En Ventura se sospechaba la intensidad de un pasado (aunque ella fuera aumentada por el recuerdo) y se evidenciaba la caída presente. Pero Vitalina, cuyos recuerdos no eran menos intensos, vivía en Cavalo dinheiro y prosigue en el film que lleva su nombre un trance que no ha desalojado del todo la dimensión de un futuro, aunque éste sea totalmente opaco desde el atribulado presente de la interminable noche del duelo.
Vitalina Varela compone un poderoso díptico nocturno con Cavalho dinheiro y es sin duda el tramo más oscuro de una trayectoria obsesionada por la noche. Pero también deja asomar por algunos resquicios algunas luminosidades, fugaces rayos de luz que inciden en la pantalla. Vitalina ya anunciaba desde su aparición un nuevo ciclo en el cine de Costa, con su mirada tan cargada de reminiscencia como de presagio. Ya no se centraba tanto en la memoria de Ventura, ni intentaba ser un retrato en tiempo presente a través de sus evoluciones por una noche transfigurada. Por lo contrario, las imágenes y sonidos comenzaron a tensarse hacia lo que el trance deje acontecer, aunque ello ocurra en un horizonte ominoso. Vitalina Varela extiende y profundiza ese tránsito por la noche como un tiempo de duelo, pero a la vez relaciona la claridad de un recuerdo de Cabo Verde (visualizado en los magníficos planos finales a la luz de un día sorprendente, ligados a una construcción y a una reconstrucción de sendas casas, a un recuerdo y a un evento en curso) con una vida que prosigue en Portugal. Por vez primera algo, ni más ni menos que un techo, comienza a ser reparado.
Siempre en riesgo, desde el momento en que se trata de un cine de sobrevivientes, y sobreviviente él mismo en tanto prosigue largas tradiciones de la centuria anterior, Vitalina Varela, más aún que Cavalo Dinheiro, permite avistar, incluso en la lóbrega noche en que se mueven ambos, aquel saludo a un alba cinematográfica que en 1921 formuló el joven Jean Epstein. A su modo, estas incursiones extremas en la noche del cine no dejan de anunciar un nuevo bonjour cinéma. El de Pedro Costa, sin cesar de rendir un constante homenaje a los viejos maestros, es también un cine que apuesta a una refundación de su potestad. Un cine que extrae su poder de su misma fragilidad, y que partiendo de ella ejerce su libertad y decide su mismo devenir.