Il desiderio di «fare Uno con l’Altro» e di possederlo si configura come una forza pervasiva della vita umana, attraversandola come un primitivo alfabeto costruito su un duplice impulso: di unione e disgregazione. Nel momento stesso in cui si entra in relazione con qualcosa di estraneo da sé, aprendosi a uno specifico oggetto del desiderio, la forza apodittica iniziale si perde come si perde, nella conoscenza dell’altro, o meglio fondendosi nell’altro, anche la propria identità e Mademoiselle di Park Chan-wook parte proprio da questo punto.

Ricontestualizzando nella Corea negli anni Trenta la novella di Sarah Walters, La ladra, il regista sudcoreano costruisce un polittico in cui la presenza totemica del Conte Fuijwara e dello zio Kouzuki si contrappone a Hideko e Sook-hee, l’una il contraltare dell’altra, i cui corpi appaiono fin dall’inizio come oggetti del potere e dell’autorità maschili. La forza di quest’autorità è data non tanto dalla prestanza fisica, poiché non c’è quasi mai violenza, carnale, se non alla fine, nell’atteggiamento del Conte e dello zio nei confronti delle due donne; il potere è altresì attestato dalla capacità di suggellare forme conformi e perfette tramite un sistema di indottrinamento spietato: il Conte prevede infatti che Sook-hee viva una vita da abile calcolatrice, mentre lo zio Kouzuki che il corpo di Hideko si trovi imbrigliato fin dall’adolescenza nelle mura del seminterrato di casa, dove viene obbligata a intrattenere degli uomini leggendo e simulando dei racconti erotici.



Se all’inizio Hideko e Sook-hee danno l’idea di due figure monolitiche e congelate dall’obbedienza delle regole che gli vengono imposte, sembra che a un certo punto il contatto visivo e fisico, riscoprendosi nell’amore, quindi, le ridesti: le xilografie degli shunga prendono così vita nei loro corpi cangianti, avvinghiati l’uno all’altro e infiammati, in un susseguirsi di visioni erotiche (ed eretiche) dove un corpo si fonde con l’altro come nei contorsionismi che Hideko mima per dilettare i maschi.

In questo reciproco sfregarsi le identità si toccano fino a scomparire, perdendosi, mentre la macchina da presa di Chan-wook si insinua impudica nelle cavità e curve dei fianchi delle due donne, appagando il desiderio dello spettatore e al contempo sfidandolo, mettendone sotto scacco lo sguardo. Sguardo che in Mademoiselle si dirama e si fa plurale, invertendo i punti di vista con cui le vicende vengono raccontate e in cui è l’erotismo visto come terreno di scoperta - memorabile la scena in cui la serva cura con un ditale la carie della sua padrona, in cui gli sguardi si incrociano languidi e le fronti si imperlano di sudore – a suscitare nelle donne una presa di consapevolezza radicale circa la propria identità. Riappropriandosene, la donna si fa qui materia viva e pulsante mentre l’uomo corrisponde al manichino con cui Hideko imita gli atti sessuali dei racconti: chi si rinchiude in un’aristocratica solitudine non lasciando libero accesso alla conoscenza (la biblioteca “in gabbia” dello zio Kouzoki) o chi si fa anestetizzare a colpi di baci venefici.

Dalle parti di Lady Vendetta e Paul Verhoeven per la rappresentazione di questa “nuova donna” che rifiuta il senso impostole ricercandone un altro, il racconto di Chan-wook congloba una pluralità di prospettive e vedute, andando ad acuirne le diramazioni nel momento in cui il desiderio dell’altro, di guardarlo e averlo con sé, si fa possesso, involvendo in un assorbimento assoluto e incontrollato. Come nel Sogno della moglie del marinaio di Hokusai che si vede a un certo punto del film, in cui figura un polpo enorme dallo sguardo demoniaco che si avvinghia alle carni di una donna nel pieno del godimento. L’immagine del polpo è ancora una volta non casuale, comparendo prima come opera d’arte e poi nella realtà effettiva durante la deriva gore finale, probabile allusione al punto di vista privilegiato del regista, avvolgente, che fuoriesce dai confini e si ramifica, traboccante come i tentacoli nell’acqua dell’acquario.

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