Napoli, la città del sole, non è mai stata così plumbea e piovosa, l’atmosfera sembra proprio quella dei noir hongkonghesi e il cielo è intriso dell’odore della polvere da sparo e del sangue. Sangue chiama sangue, dice Peppino Lo Cicero, in pensione dal crimine da qualche tempo, ma un delitto come quello subito dall’ex-criminale non può restare impunito. La pioggia scende sulla città regalandole le ombre di una tela impressionista, un paesaggio dai contorni nebulosi e indefiniti. Il tono seventies lo si avverte sin dai titoli di apertura, colori sgargianti, tra tutti un giallo saturo su cui spiccano figure nere stilizzate.
Diviso in cinque capitoli, dai titoli ironici e acuti, il film, 5 è il numero perfetto, presentato nella sezione Orizzonti, a Venezia 76, nasce da una graphic novel di Igor Tuveri, meglio conosciuto come Igort, che firma anche la sceneggiatura e la regia. L’opera è la messa in quadro di un’idea di cinema che trova la sua solida architettura nell’immaginario libero e sfrenato dell’autore, grazie anche a un’estetica visionaria influenzata dal fumetto e da elementi squisitamente vintage, come i manifesti che tappezzano la città e su cui la mdp indugia; pubblicità di qualche tempo fa, Digestivo Antonetto, Cirio e Campari, che spicca a lettere cubitali sulla terrazza che ospita un duello leoniano, alla mezzogiorno di fuoco.
C’è la pupa del boss, Rita, una splendida Valeria Golino, sempre più bella e magnetica, l’amico fidato Totò o’macellaio, uno spietato Buccirosso, c’è il cattivo di turno e il colpo di scena con tradimento, ma tutto è sapientemente condito da una buona dose di humour; diversi i momenti che alleggeriscono la tensione, sempre ben costruita e tesa dove deve esserlo. Servillo è perfetto nei panni del guappo che ha appeso la pistola al chiodo, pronto però a tornare in azione con tanto di supplica alla Madonna: «Aiutatemi a diventare quello che ero, perdonatemi quello che sarò.» Si danza al suono di rivoltelle e proiettili, e il sangue scorre a litri, perché la vendetta va soddisfatta.
Nella sospensione di un tempo indefinito, la serenità è una chimera e la ferinità umana è l’unica consapevolezza; la luminosità mortifera del sole illumina il volto torvo degli affetti, cupo e bestiale, in quella luce devastata di un (non)luogo lontano e smarrito, Peppino (ri)conosce la realtà. Nel dissesto l’illusione di un sentimento, di un’amicizia, si perde, restando un’eco stonata che scivola nella vertigine del nulla. La regia di Igort è brillante e piena di verve, gli split screen rimandano al cinema degli anni settanta ma anche alle vignette dei comics, le inquadrature occhieggiano sornione e ironiche al polar francese e al cinema di Hong Kong, con i ralenty alla John Woo e lo scrosciare incessante della pioggia.
Mentre nei cinema si proiettano Totò e Cleopatra e Cinque dita di violenza, i flashback raccontano il passato di Peppino, il suo rapporto con la moglie, il figlio e la sua filosofia; per l’uomo il male è necessario, perché la divisione tra buoni e cattivi, nella vita, non è poi così marcata come lo è nel fumetto tanto amato da Nino da bambino, l’Uomo gatto, metafora dell’eterna contrapposizione finzione/realtà. 5 è il numero perfetto è un confortante esempio di come il cinema italiano contemporaneo possa riuscire, grazie a un linguaggio libero, dirompente e esplosivo, a mescolare con freschezza e sapienza, fumetto, arte e dialettica cinematografica, regalando estasi per gli occhi in ogni singolo frame.