Rod Serling, indimenticabile scrittore e sceneggiatore americano, autore e voce narrante di una delle serie televisive antologiche più amate e significative di sempre (The Twilight Zone), è stato per molti versi un esempio mirabile di abilità nel decostruire temi sociali (la paranoia nucleare, il razzismo, l’ipocrisia religiosa e politica, la solitudine, il conformismo e molto altro) attraverso le lenti della fantascienza e dell’horror. Una voce talmente popolare da risultare inconfondibile per il pubblico degli anni Sessanta prima (il periodo di messa in onda è 1959-1964) e Settanta poi.
Che De Palma, dunque, l’abbia scelta per aprire il suo film forse più intertestuale, postmoderno e camp (Phantom of the Paradise, 1974) è, di fatto, una dichiarazione di intenti sublimata, che subito annuncia il proposito – portato poi a totale compimento nel corso della narrazione – di mettere alla berlina i meccanismi di formazione della cultura popolare e le ciniche mire dell’industria culturale, di scherzare con le aspettative del pubblico e di estraniarlo, brechtianamente, dall’azione, invitandolo anzi a riflettere sulle sue stesse reazioni e sui meccanismi del medium cinetelevisivo. L’utilizzo della voce di Rod Serling è una strizzata d’occhio ad un pubblico mediaticamente satollo, navigato, preparato, che poteva probabilmente cogliere e apprezzare il suo riferimento a Xanadu, la tenuta immaginaria in cui vive il Charles Foster Kane di Quarto Potere, modellata sul vero castello californiano del tycoon William Hearst che ispirò Orson Welles. E questi due riferimenti – Serling da un lato, Welles dall’altro –, fissati già nei primi secondi di runtime, non sono che le prime avvisaglie d’un citazionismo, mai sterile e stucchevole, ma sempre florido e divertente, che parte chiaramente da Le Fantôme de l'Opéra di Leroux e dalle sue trasposizioni cinematografiche (soprattutto la produzione hammeriana di Terence Fisher del 1962) e finisce all’espressionismo tedesco de Das Cabinet des Dr. Caligari (Robert Wiene, 1920) al Faust di Murnau (1926), passando per l’omonimo poema di Goethe, The Picture of Dorian Gray di Wilde, The Manchurian Candidate (John Frankenheimer, 1962), Psycho (Alfred Hitchcock, 1960) e i Keystone Cops.
Nessi che, come si diceva, non sono mai sterili e meramente derivativi, come vorrebbe far credere una scuola di pensiero critico che ha descritto De Palma come un regista “terribile, che non ha mai avuto un’idea originale nella vita, un Hitchcock dei poveri” (è lo stesso regista a lamentarsene, con queste parole, nello splendido libro di interviste curato da Laurence F. Knapp) e che sono accompagnati, tra l’altro, da una precisa esplicitazione del gioco rappresentativo. Oltre a citare Xanadu, infatti, la voce narrante di Serling non si fa scrupoli a dichiarare che quello che stiamo per vedere è un film. Lungi dal costituire un semplice avvitamento nel pastiche intertestuale, l’approccio ironico (basti vedere l’incredibile, geniale, esilarante parodia della famosa scena della doccia di Psycho, in cui il coltello viene sostituito con uno sturalavandino) e metalinguistico nei confronti dei sistemi di riproduzione del reale, delle convenzioni, dei cliché, dei generi, dei miti mediatici o ideologici, non serve ad altro se non a politicizzare la rappresentazione stessa. Come insegna Linda Hutcheon (che di questa visione del postmodernismo si fa alfiere, in contrapposizione a Jameson che ne ha una visione negativa, decorativa, destoricizzata e disinteressata alla critica sociale e politica) la parodia “de-doxifica”, scopre il velo ingannatore della doxa, dell’opinione pubblica infarcita di pregiudizi e false convinzioni, ne esibisce la natura, eterodiretta, manipolata e pericolosa.
Il postmodernismo e il lavoro di De Palma – un uomo profondamente deluso dal fallimento della controcultura e dei movimenti sessantottini, disilluso dalla guerra in Vietnam e dal governo Nixon – non fanno che mettere in discussione qualsivoglia posizione ideologica e presunta verità, esponendo le contraddizioni della società e i tentativi da parte del potere (di qualunque forma esso sia) di corrompere l’umano, esattamente come il diabolico produttore discografico Swan (Paul Williams) fa con gli artisti Winslow (William Finley) e Phoenix (Jessica Harper) in Phantom of the Paradise. Proprio il personaggio di Phoenix, acriticamente sedotta dal fascino diabolico di Swan e facilmente ridotta, nonostante la poesia apparentemente resistente del suo sogno di cantare, ad una istupidita e vanagloriosa star interessata solo alla fama e al piacere, sembra incarnare la naïveté dell’opinione pubblica, del consumatore ai tempi dell’industria culturale. Non a caso l’incipit del film, dopo la prima introduzione in voice over, è affidato ad una esibizione dei Juicy Fruits, un gruppo musicale preconfenzionato che, come spiega il narratore, “da solo è stato capace di dar vita all’ondata di nostalgia negli anni ‘70”. Il riferimento, chiarissimo, è alla nostalgia per i “Nifty Fifties”, così ben radicata negli anni del Watergate (basti pensare ad American Graffiti, Happy Days, The Last Picture Show ma anche al fenomeno delle cover band come gli Sha Na Na, che aprirono nientemeno che l’esibizione di Jimi Hendrix a Woodstock) da diventare oggetto di parodia cinematografica da parte di De Palma, che si pone verso di essa in atteggiamento profondamente critico, demistificandola e derubricandola a mera strategia di marketing; un fenomeno a comparsa pilotata, insomma, pronto a scomparire nel momento in cui chi detiene le redini dello show business, del potere economico, e quindi mediatico, fiuta il cambio di paradigma e lancia un nuovo trend.
Come se non bastasse la canzone che i Juicy Fruits portano sul palcoscenico – “Goodbye Eddie” – parla di un cantante che arriva ad usare il suicidio come disperato, grandioso veicolo pubblicitario per il suo album, al fine di massimizzarne le vendite per poter finanziare un’operazione chirurgica necessaria a sua sorella. Un atto tragico che viene goffamente simulato dal leader della band durante l’esibizione. Tra titoli di testa sbrilluccicanti come neon da circo, doo-wop e falsetti, untuose capigliature anni Cinquanta e sigarette sulle orecchie, è il trionfo del kitsch (che per Adorno costituiva l’essenza stessa dell’apparato estetico messo in piedi dall’industria culturale), usato come sempre da De Palma in modo deliberatamente e sofisticatamente camp, proprio per farsi beffe della società che ne è diretta emanatrice. Phantom of The Paradise utilizza la musica pop, i suoi aguzzini e le sue vittime come metafora dell’inconfutabile fallimento delle istanze rivoluzionarie dei movimenti sessantottini, come simbolo dello sfruttamento commerciale e della re-invenzione dell’establishment. Alla fine del film sia Winslow che Phoenix saranno distrutti dal sistema, personificato da Swan, e perderanno libertà, indipendenza, creatività, sogni.
Quella di De Palma è dunque una critica al contempo esilarante e feroce che non risparmia nessuno, né i manipolatori né i manipolati. Il film mette alla berlina non solo l’avidità e l’ambizione che pervade il business musicale e lo show business in generale, ma anche la bramosia del pubblico per l’intrattenimento spettacolare, specialmente se include violenza e morte, anticipando temi trattati da film come Natural Born Killers o strategie effettivamente messe in atto dai network televisivi (si pensi ad HBO e Game of Thrones, Westworld, True Blood). La morte iper-trash di Beef sul palco, folgorato da una lampada a neon a forma di fulmine, riecheggia quella dell’Eddie protagonista della canzone dei Juicy Fruits e suggerisce che la spettacolarizzazione della violenza (elemento a cui De Palma ha praticamente dedicato la sua intera filmografia) viene fornita soprattutto in risposta ad una domanda da parte del pubblico, più che da una reale intenzione da parte di chi ne diventa artefice o rappresentatore. Nella società dello spettacolo l’importante è “divertirsi da morire” (come recita il bellissimo titolo del fondamentale testo di Neil Postman). Vita e morte sono atti performativi senza più significato reale, semplici “messe in scena”. Il pubblico dello show finale del film, composto per lo più da giovani, non è in grado di filtrare tra verità e finzione.
Non ragiona, non osserva, non distingue. Guarda, consuma, balla. De Palma, lo si diceva a proposito dell’uso della citazione e della parodia, è regista indubbiamente, profondamente politico. Oltre ai temi già citati, c’è nel film l’allegoria del giovane tradito dall’adulto (Winslow, ma anche le cantanti che partecipano alle audizioni e aspirano al riconoscimento) e dalle istituzioni (la polizia corrotta, la prigione finanziata dalle grandi aziende, la mancanza dello Stato), della proprietà creativa e artistica rubata e riutilizzata dalle grandi corporation. Del resto tutta la carriera registica di De Palma è marchiata da un conflitto continuo tra indipendenza e Hollywood, tra il desiderio di autonomia e la compulsione al conformismo. Alcuni dei suoi film, tra cui proprio Phantom of the Paradise, diventano pure traslazioni di questo rapporto conflittuale. Il fantasma vende la sua anima al diabolico produttore discografico nel tentativo, ironico, di mantenere la sua voce, dopo che lo scontro diretto con l’uomo d’affari gliel’aveva portata via, cambiando per sempre i connotati stessi dell’artista e della sua opera (l’incidente con la pressa, il volto sfigurato di Winslow, la voce ormai ascoltabile soltanto attraverso un’operazione di sintesi digitale).
Un po’ come nella genesi stessa di questo eccentrico film, la cui idea nacque un giorno del 1969, quando De Palma sentì A Day in the life dei Beatles in ascensore, come musica da sottofondo. L’idea che qualcosa di così spiccatamente bello, ricco d’inventiva e di amore per la musica potesse essere deturpato e mercificato in quel modo barbaro colpì vivamente la sensibilità del regista italo-americano, che vi ritrovò un’allegoria della sua vita da film director, un ruolo che più di qualunque altro al mondo segna il crocevia tra pulsioni artistiche e compromesso economico-finanziario, essendo il cinema un’arte-industria che richiede un apparato produttivo dai costi potenzialmente elevatissimi. Eccola allora la tragedia nella commedia, l’umanissima disperazione di De Palma e del suo fantasma da palcoscenico, anni luce lontana dal ritratto da becero remaker che la critica più ottusa ha voluto affibbiargli. Tragedie vere e dolorose, tragedie d’amore che si consumano nell’indifferenza, anzi nell’incapacità di discernimento di un mondo fasullo e cretino, che, come Phoenix con la morte di Winslow nel finale del film, rischiano di essere riconosciute e compiante da chi avrebbe potuto evitarle quando ormai è tutto finito.