Ci sono tele davanti alle quali si resta ipnotizzati, che impediscono di distogliere lo sguardo e che fanno scivolare in una vertigine mistica, tra le pennellate impastate di colore ematico, i confini del reale slittano in un immaginario di incubi e sogni confusi, in un deragliamento mesmerico dei sensi.

I Seagram Murals, i pannelli realizzati da Mark Rothko per il Four Seasons, nel Seagram Building, generano un febbrile capogiro, lasciano osservare l’abisso, cupo, notturno, di sangue rappreso, in preda a deliri emotivi, il piano emozionale è narrato dall’immagine in cui ci si smarrisce e la voragine si schiude in vuoti esasperati. Allo stesso modo i bui crepuscolari, resi magistralmente dal direttore della fotografia Leonardo Simões, in Vitalina Varela, di Pedro Costa, sono una baudelairiana elegia di morte, dolore e vita, in un avvampante caos di fulgida bellezza.

“It’s too late”, un corteo silenzioso sembra sortire dalle quinte di un teatro, un teatro funereo e luttuoso, solo silenzio; Vitalina Varela arriva a Lisbona, scende a piedi nudi da un aereo che attendeva da troppo tempo, ad aspettarla ci sono solo addetti alle pulizie, ma ormai è tardi, suo marito Joaquim è morto e i suoi funerali sono stati celebrati giorni prima. Vitalina Varela, ultimo film di Pedro Costa, Pardo d’Oro a Locarno72, è un’ibridazione tra vita e cinema. Vitalina è al contempo finzione e realtà, è l’attrice che presta corpo, nome e soprattutto anima a questa nuova creatura di Costa. La tenebra è fitta, spessa come una coltre, ferita, lacerata dalla luce, galleggia in superficie come nelle tele di Rothko, densa, materica e stratificata, l’oscurità tra i neri pastosi rivela storie e vite. Memorie da un sottosuolo sovente cantate da Costa nei suoi film, nei vicoli di una Lisbona capoverdiana buia, abitata dall’oscurità e da un’umanità in lacrime, di nuovo a Fontainhas.

Disperazione, risentimento, rabbia e vendetta, covata dalla donna che dopo venticinque anni di solitudine e lontananza prova a ricongiungersi all’uomo che aveva sposato, ma ora lui non c’è più, restano i ricordi e il dolore ad occupare gli spazi vuoti, la presenza dell’uomo amato è solo fantasmica assenza. La casa a Figueira das Nas, costruita insieme, tra gli sforzi e le speranze, è ben altro rispetto a quella in cui Joaquim ha vissuto prima di morire, sporca, lugubre e decadente, la dimora ha ospitato la malattia e gli stenti dell’uomo, i muri, gli angoli e gli spazi ne raccontano gli affanni.



Vitalina Varela, questo ultimo lavoro di Pedro Costa, rappresenta quasi un dittico con Cavalo Dinheiro, in cui Vitalina appariva per la prima volta, entrambe le opere esplorano la vita dei capoverdiani immigrati a Lisbona, la donna ritrova il Ventura di Cavalo Dinheiro, qui prete dedito all’alcol e dalla fede traballante, che nel tentativo di contenere l’ira della donna ferita, si confida: “condividiamo il lutto [...] tu hai perso tuo marito, io ho perso la mia fede in questa tenebra...”. Il rischio è quello paventato da Nietzsche, mai così reale, mai così concreto, “se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà in te”.

Vitalina è lo sguardo al femminile sull’esodo del popolo capoverdiano, la sua presenza monumentale e ieratica, si muove tra i vicoli, le scale, gli edifici angusti in un’eterna notte in cui si dipana la matassa dolorante della sofferenza della donna e, al contempo, della gente capoverdiana, dipinta dalle zone d’ombra, dal buio. La camera è fissa e davanti ad essa accade il film, è la narrazione del reale che incontra la finzione filmica. La mdp di Pedro Costa è intenta a raccogliere ciò che capita dinanzi al suo sguardo, la scena si definisce da sé, nel suo farsi, cattura la profondità degli interni, le storie, le parole, le lacrime e i drammi, come davanti a “quadri viventi” che compongono l’inquadratura.

L’occhio statico e sovente basso, si alza fino a tre quarti, in un piano americano, ma sempre immobile, ponendo l’accento su come il filmico sia quasi del tutto escluso per lasciare spazio alla vita e al suo dolente spleen. Eppure il barlume di una speranza c’è, in quel finale in cui le ombre scolpite lasciano intravedere il baluginio di una flebile possibilità, più di una chimerica illusione, perché brandelli di luce emergano dalla tenebra, il colore torna tra gli azzurri e i turchesi del cielo, come nelle opere di Mark Rothko, perché è dal caos che nasce una stella danzante.

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