La prima immagine di Petrunya (l’attrice i-comica Zorica Nusheva in una sommessa ma solida interpretazione) è in una desolata piscina stagnante e abbandonata. È una persona sola al centro di uno spazio de-finito, arido, senza (un) Dio. Subito dopo si impone (con “note” dissacranti) l’enunciativo, messianico titolo: Dio è donna e si chiama Petrunya.

La trama vive di contrapposizioni (maschio/femmina, istituzione/individuo, interni/esterni, luci/ombre) e la protagonista è in una “terra di mezzo” per volontà di altri (i genitori, il clero, la forza pubblica, i media). Si muove in un ambiente domestico raramente “illuminato”, opalescente, con camere anguste che comprimono il suo temperamento mentre “fuori” il clima è freddo, quasi glaciale, come la luce che si diffonde nei luoghi anonimi che frequenta. La comunità la osserva come un corpo estraneo, ingombrante, respingente perché è grassa, orgogliosa, disoccupata con una laurea in Storia (il suo “oggetto di studio” preferito è il comunismo cinese) considerata poco “utile”. La percezione del tempo è immobile in una realtà di rinunce e frustrazioni (l’ennesimo umiliante e “isolante” colloquio di lavoro davanti a potenziali colleghe che possono guardare ma non ascoltare).     

La quotidianità è un rito ordinario fino al giorno/momento eccezionale dell’Epifania (ἐπιϕάνεια/apparizione) in cui il prete lancia una croce nei flutti e invita i fedeli a tuffarsi nelle gelide acque per restituirla così da godere di un anno di buoni auspici. Sarà Petrunya a raccogliere la croce grazie ad un gesto impulsivo nonostante la gara sia riservata solo agli uomini. Da quella mise en abyme, dopo il “battesimo (βάπτισμα/immersione)” nel fiume, la “bagnante” assume una nuova coscienza/visione. Mutano anche i termini della “messa” in scena de-limitati da una stazione di polizia che mira a “contenere” e ad “arrestare” la sua emancipazione.



Nel paese la figura femminile è dominat(t)rice (domus - agere) ed è associata alla gestione dei rapporti di famiglia: la moglie detta le “regole” al marito succube e decide come la figlia deve vestire e quale aspetto “di-mostrare”, la giornalista detta telefonicamente i “tempi” e i “modi” che il consorte deve rispettare per la corretta educazione dei figli, la commessa della boutique è attenta all’abbigliamento e all’arredo ma anche al suo legame sentimentale con un uomo sposato (datore di lavoro).

Petrunya, ora chiusa tra le mura del commissariato, dovrà ri-definire e ri-negoziare i rapporti socio-politici del suo “ruolo”. Porta con sé la croce, simbolo di tormento/resurrezione (“in hoc signo vinces” sono le folgoranti parole rivolte all’imperatore Costantino nominato a rivoluzionare costumi e “codici”) ma anche la ri-flessione: le pareti in cui è prigioniera sono caratterizzate da superfici trasparenti, specchio di volti e corpi che si sfidano e/o si comprendono fino a s-finirsi. I confini si dilatano ed è significativo il fotogramma in cui, alle spalle di Petrunya, che indossa un abito decorato di foglie, si nota una verde parete che ritrae una foresta con una fitta vegetazione. Il tavolo con vetro è uno schermo che rivela il suo doppio sembiante: lei è de-positaria dello ius naturale e testimone dello ius civile. Dio (e se fosse Donna?), Natura e Ragione concorrono allo stesso universo di giustizia/eguaglianza, (in)formano una identità.



Nell’eterna e “cruciale” lotta tra natura e cultura la regista macedone Teona Strugar Mitevska (attivista femminista in patria) “dirige” e rappresenta l’”indomita” eroina nella sua manifesta libertà di scegliere il proprio destino (che è la “storia” della sua vita e dell’umanità) in un mondo declinato al maschile, che de-termina l’imago della donna in relazione all’uomo (la folla esclama: “non si è mai vista una donna fare una cosa del genere”).

Petrunya rivendica il suo arbitrio e la sua istintività come un cerbiatto (spesso in effigie su fonti battesimali) che segue le orme dettate dalla sua indole sfuggente, solitaria, a suo agio in distese infinite, non “addomesticabile”. In senso sciamanico è l’anima-le guida/totem che ha sete di autentica acqua sorgente (verità) e vaga nella flora più rigogliosa (bellezza).
La novella della preda (la “fiera” donna con la croce) e i cacciatori (Chiesa, Stato) è la narrazione di un conflitto che si risolve nell’atto della ricerca: cammino e meta sono due facce della stessa medaglia.
“La vita non è un racconto di fiabe” ma la fabula (del cinema) racconta la vita.

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