«A proposito del sonno, avventura sinistra di tutte le sere, si può dire che gli uomini si addormentano quotidianamente con un'audacia che sarebbe inintelligibile se non sapessimo che è il risultato dell'ignoranza del pericolo». (C. Baudelaire)

Qualche anno fa – la primavera essudava, la sera, un'ombra, un lento, inesorabile rutilare di tempo, fatto di gelsomini su un davanzale; un muro cementizio, forato da zampe e zanne d'insetto brulicanti appena fuori della soglia; un cielo di velluto, appeso al suo sibilo, al suo rimuginare d'eco in eco, dov'eravamo appoggiati, e col fiume più limpido di fronte, più lucido, in odore di rane, dove un vecchio scaricava il suo rivo di piscio, nel momento in cui stavo per lasciare lei, come aperta, espansa nelle sue ossa minute, che invece proprio allora fantasticava di una vita insieme nella sua casa dai mattoni antichi, gli echi delle porte e degli spazi restaurati nel rispetto del rococò; immaginava lo stereotipo dei caffè bevuti al mattino, appoggiati alla testiera, sulla farragine delle lenzuola e delle zazzere; la mistione degli umori, dei vischi fuori dai pori della lingua, appena svegli, gambe, labbra spalancate, grondandi di gore lattiginose sul letto; e poi la cura, la dedizione contro i presagi provenienti dalla fine del giorno ; mentre s'alzava una folata, nata dagli steli di quei gelsomini fissi, da una frana di sguardo che in quell'istante cadeva lontano sul piano dell'orizzonte, biascicai l'addio, il mai-più, frammenti di ragioni, nervose, balbe giustificazioni che si radicavano in un cupo, malato istinto a tornare, come una febbre vorticante sopra le nostre teste nella sua purezza di germi, i premevi, quelli che da principio, quando tutto era nebulosa, hanno sparso sulla crosta terrestre il morbo, perciò fuori dal mio controllo, fuori dal controllo di chiunque; che mi riportava a una ridondanza, mi ci contagiava ancora, perché forse non siamo che un involucro infetto di pelle, ossessivo, ondivago, che dà corso alla malattia-in-essere, al morbo dello stare al mondo, cioè del con-stare, attraverso il centro, il fuoco dei propri corpi fomentati, sfondati, protuberanze e plessi di nervi persi nella catastrofe delle secrezioni.

E allora spalancando orbite azzurre, iridi stupefacenti, quasi indaco nel rossore flagrante dei bulbi oculari, esalò un misto di sangue scuro, acre, e sudore vertiginoso, nauseato, che fermentava, ribolliva e da lì diceva no, non è possibile, scuoteva la testa di tragico, isterico burattino. Lo sentivo salire come un'afa di vapore acqueo, e diffondersi per merletti di cotone e calze in nylon, maglie di lana leggera, poi quella ispida della sciarpa intrisa di singhiozzi e sincopi: era un odore sordo, cavo, un grido che veniva dal covo di peli e pieghe carnee in pieno mestruo, finché, mano tremante, perfettamente scolpita nello sfondo acqueo già sciamante, disse questo è il libro che t'avrei regalato per ricordare poi l'inizio e invece sembra sia la fine; avevo sottolineato un periodo per farti capire come mi sarei sentita se... che dunque è ora.

Il mattino dopo, invaso da lame di freddo e da un manto di luce slavata, presi il treno del ritorno, che già ghignava in pieno, unto ferrame dalla banchina, mentre ruminavo tra i denti un bolo venefico, incagliato poi in gola per un attimo: era un brusio e un sonno d'ombre e bagagli, nel loro viavai d'automi dal vagone ristorante ai bagni vegetanti nelle loro pozzanghere d'urina e negli atomi fradici di carta igienica che adornavano la gomma, la melma del pavimento. In quel tempo dilaniato dallo scorrere dei campi dai finestrini, mentre la stagione cambiava la sua muta che era una coltre di prati frammezzata da pozze selvatiche, bianchicce di fiori, lessi alcune pagine di Amore senza fine di Scott Spencer nella prima edizione Mondadori del 1980, copertina blu con scritte rosse, grandi, simile a quella dell'originale Endless Love uscito l'anno prima negli Stati Uniti per Alfred A. Knopf. Ma è dall'edizione Sellerio del 2015 che riporto il passo sottolineato, perché l'altra, quella tragica reliquia del ritorno, che ancora immagino scovata tenacemente in un qualche catalogo sommerso perché avessi proprio quella, è sparita, forse perduta in uno dei piovosi traslochi degli ultimi anni, cartoni marci, maglioni fradici, le farneticazioni di cose nuvolose, alluvionate.

Lessi quel breve periodo evidenziato da linee dritte, precise, quella diagnosi di malattia che si stagliava sulla carta in lieve amenza di muffa, qualche giorno dopo, voltando pagina distrattamente dopo l'amplesso sanguinoso tra David e Jane che ancora si sistemava l'assorbente e tutt'intorno mormoravano macchie rugginose sulla sindone della stanza, quando m'apparve chiaro, sonante come un'antifona che «non esisteva dolore che potesse paragonarsi al vuoto della separazione, nessun tormento poteva somigliare all'irrealtà del non essere insieme»: questo − che io già sentivo e avrei sentito ancora per l'altra − m'aveva lasciato lei, con gesto sbriciolato delle dita, delle piccole unghie aggrappate a un qualche baratro. E questo, per non so quale congiuntura, m'è rimbombato in testa ultimamente con tutto il suo corollario di pioggia, notti scavate nello sterno, conati e vomiti a ogni passo, poi la mattina presto, come un tarlo renitente che punge le meningi, scava materia grigia, s'insinua e tiene l'apparato nervoso assimilandolo allo sfondo nerastro dell'atmosfera, cancerosa, gonfia di pioggia; tanto da sentirlo risuonare nell'ultimo Patrick Watson, Wave; e poi definire perfettamente il tipo di visione, di ottica, di Padrone dove sei.

È proprio «l'irrealtà del non essere insieme» la lente attraverso cui Schirinzi guarda, traguarda il mondo che, sotto quel filtro, lente di smottamento, di smontamento, si sgrana in quanto dissesto terracqueo, correlativo oggettivo dell'annaspare del cane randagio (lo stesso, residuale, rovinoso che errava nei Resti di Bisanzio) che coita ora contro spigoli, antri, sculture, particelle di un'esperienza in meraviglioso, granulare sfacelo, di cui fa parte anche un vecchio corpo morente, sulla base della grinzosità della carne medicalizzata, assimilata a quella dei capezzoli sfregati, di un'aseità bovina, animale, delle sculture levigate, ecc.: una costellazione di visioni e una dissertazione sulla materia nelle sue declinazioni che alla fine si farà materia cinematografica; dalla carne bestiale, e dalla sovrumana violazione carnale ricordata, rimuginata, e dal bestiame che siamo, ai colori bestiali del finale, a intermittenza ritmica, oramai astratta.

Il soggetto, o quel che ne resta dopo l'ecatombe della separazione, dell'assenza ruggente, nel mezzo dell'inedia sessuale, pratica frizioni al pene imbastito nella patta, al fine di curarsi, medicalizzarsi, curare il fuoco, il turgore tumorale spuntato al centro del corpo come reazione alla malattia d'essere, del con-essere, con l'altro che però è sempre più in là e fa scontare violentemente la propria assenza; si masturba ripensando agli antri di donna, ani profondi, grinzosi come capezzoli, e come le braccia mencie della vecchia morente (permutazione della materia nelle varie carni), antri cavi, vivi in misura del convesso ancestrale delle natiche, grandi labbra dischiuse e pollanti, clitoridi sgusciati dalle piccole labbra, anelanti a dita, a lingue, bocche suggenti; si tocca, venendo continuamente meno, appoggiato al vuoto, al niente del mondo, all'irrealtà del non essere insieme, che scandisce una solitudine piena di ponti su acque stagnanti, schiume di un mare distante, scostante, strade percorse da presenze spettrali, viste da Schirinzi come in tralice, attraverso vetri, travi oblique, il mugghio metallico, cacofonico del vento a mareggiare nel microfono della macchina.

Una spettralità dell'immagine – come quella definita dai pixel, dalla carne morta dei Roxy Music e del loro In Every Dream Home A Heartache, lenta, cadenzata giaculatoria del panorama allucinato del mondo, o la danza degli uccelli sopra lo specchio torbido d'acqua scoperto in quel momento dai Cluster  tanto estrema quanto sorta, ri-sorta (dopo l'annientamento provocato dalla separazione dalla materia, dalla sperequazione tra segno e cosa) sul reclamo della carne, sul tentativo maledetto, all'insegna della bestemmia, del pornografico, di reificazione dell'ossesso, del ricordo smerigliato, famelico d'io per via delle proprie aperture.

È tale il senso di questo film divenuto già cruciale, teso nel suo estremo, nudo narcisismo: il rapporto spasmodico, ossessivo tra ossesso e ossa, plasma e metaplasma, che si risolve nella fremente, dolorosissima constatazione della distanza esistente, persistente tra le dimensioni; di una congruenza solo illusoria che denuncia in ogni istante la propria disincarnazione, la propria difettosità nel raggio tracciato dall'immaginazione. Anche se non è citato alla fine dei titoli di coda, in una bibliografia che potrebbe apparire superflua e invece è suggello al narcisismo di fondo, spudorato, bambinesco, e annovera Bataille, Klossowki, ecc., dalla concatenazione linguistica, metonimica di Padrone dove sei, emerge Lacan, il suo “soggetto del desiderio”, l'essere nella tensione costante a un oggetto perduto, mancante, e che allora vi reagisce attraverso l'articolazione linguistica nella sua propensione a rivelare mondi, che sia parola o immagine, nota o colore, la confessione di Spencer o quella di Schirinzi.

È quell'irrealtà del non essere insieme, che mentre dice il tentativo di resistenza al dolore, che «solo il dolore è vero», si fa segno, storia: si fa sogno sfinente in cui le cose, anche le più piccole, assumono il loro «vero», enorme peso e tendono a schiacciare il soggetto, ad ammalarlo (d'esistenza, di con-esistenza) e così a inverarlo nella carne della proiezione, della vertigine, dell'aporia del mondo, consapevole, un secondo prima di chiudere gli occhi, che in ogni sogno c'è una fitta al cuore.

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