Resta, dopo che i titoli di coda hanno danzato obliqui come le onde, apparsi nel cobalto che si dilegua frastagliato sullo sfondo, la memoria di alcuni versi di Baudelaire: «[…] Moi, je buvais, crispé comme un extravagant, / dans son oeil, ciel livide où germe l’ouragan, / la douceur qui fascine et le plaisir qui tue. / Un èclair…puis la nuit! […]», è lo shock, la sopravvivenza di quello sguardo che ha affascinato e ucciso, un’esperienza artistica che ha molto dello sconvolgimento erotico, soprattutto se volutamente, come credo, la sintagmatica di Drift si fosse sottratta all’ultimo, estremo gesto degli abissi.

Perché quest’opera è tutta un’oscillare, un piegarsi, andare ai margini, porsi ai lati, gonfiarsi da ogni parte: insieme al mare, stando proprio là in mezzo, là sopra le onde, rinuncia a guardare dal basso, dall’interno di questa vastità terribile e dolcissima, sapendo che alla deriva, quella imprescindibile e da cui indietro non si torna, basta stare, restare, appena più in basso di quella superficie che trascina, tirando sotto gli occhi, la pelle.

Passa invece, si muove senza sosta imprigionata in uno sguardo appunto, ammaliante: che è la fissità dei piani, imbrigliati in tempi lunghissimi, anche se si gira a vuoto, come l’uomo che a vuoto gira nella luce rotonda della torcia su uno sfondo completamente buio. Sono questi movimenti, questo passare lento e superbo da uno snodo ad un altro del film che Helena Wittmann ci fa letteralmente, fisicamente, visceralmente vedere; dove bisognerebbe annegare, ingoiando tutto quel dolore che bolle, che si sposta livido nelle inquadrature, che si muove in ogni direzione – paradigmatiche, in tal senso, la scena dell’acqua increspata che i movimenti di macchina segue, da ogni lato, e allora di fronte, da sinistra, da destra, contemporaneamente l’acqua insegue altra acqua, la incontra, se ne distanzia, in un flusso continuo che a volte ha dell’irreale; e quella delle formiche che si spostano in direzioni contrarie in campo fermo, ripetendo il movimento del mare.

Dopo lo specchio delle due figure femminili sedute l’una di fronte all’altra, un volto di profilo, e tutto è fermo tranne una ciocca di capelli spostata appena dal vento, i piedi da una parte verso l’esterno, contro la ringhiera, e dell’altra donna verso l’interno, dalla parte della finestra – molti sono gli spazi che si aprono dalle invetriate, dai balconi ma sempre come se si scegliesse di fermarsi al di qua, al chiuso, claustrofobico – dopo la marea spumosa ma immobile delle lenzuola, non ci sono storie e nemmeno protagonisti, tranne le due amiche, tranne gli elementi naturali in primissimo piano, stagliati sul nero. E ci sono onde d’alberi, di spalle, groviglio di rami, pupille riflesse allo specchietto retrovisore, e una mano che raccoglie sassi, un ginocchio , l’orizzonte che cade, sbilenco, lo sguardo che vacilla, che dondola: altalena sul mare che sprofonda, che si oscura sotto le nuvole in fila, e assume i contorni del mondo, il nostro, così liquido, instabile, disperato.

Ché anche se guardi di traverso, se inclini la testa assecondando un’ipotetica macchina da presa che (in)segue l’immensità di tutto ciò che sta appena sopra la superficie, ti perdi. E di te, che spalanchi gli occhi, non resta che ombra, lontana, che scende il profilo stratificato di una brulla collina, e volo che precipita a tagliare il quadro, perso di vista fra gli ultimi rigurgiti di musica elettronica.

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