Quello uscito nelle sale non è il film che Brian De Palma aveva immaginato: come ammesso dallo stesso regista, non ne ha scritto la sceneggiatura e non ha avuto controllo né sul montaggio, né sul metraggio finale. Il film, ostaggio della produzione danese, ha subito tagli per oltre mezz’ora sulle due ore che, in origine, erano state previste (nello stesso tempo, è bene dirlo, De Palma sceglie il direttore della fotografia del precedente Passion, Josè Luis Alcaine – lo stesso di Sur di Erice, ma anche di Pedro Costa, Almodovar, Aranda e chiama Pino Donaggio per le musiche, sodale in tutti i suoi thriller).

Questo crea, pensiamo, soprattutto una carenza di spazi (e, conseguentemente, di movimenti della mdp, dei corpi che li esplorano o li abitano): in un Domino così mutilato, non avrebbe trovato posto, ad esempio, il lunghissimo inseguimento di Body Double o Blow Out (una traccia è la sequenza dell’assassinio del poliziotto, sviluppata su due piani sovrapposti: il sopra, con le tracce di sangue e la scena del crimine, e il sotto con lo scontro con il criminale e la fuga hitchockiana sui tetti). Eppure anche in quest’opera imperfetta, difficile, mutilata e rinnegata a posteriori dallo stesso regista (come aveva fatto Welles per gli Amberson), quasi un apocrifo depalmiano, si può osservare ancora, a tratti, il touch del regista di Blow Out, Snake Eyes e Femme Fatale, sempre capace di mostrare quasi programmaticamente un supplemento, uno scarto, su cui sarebbe compito del critico vegliare e, insieme, una cruda (e lucidissima) «metafora della visione».

Lui, che è riuscito a trasportare il dispositivo perversamente implacabile hitchcockiano fino all’epoca video, quella terza epoca dell’immagine rievocata da Deleuze nella lettera a Serge Daney (poi diventata introduzione al Cine Journal): ossia quell’immagine il cui fondo è già un’immagine, e dove ognuna di esse scivola, senza profondità, sull’altra, e centrale è il sorvolo “di un occhio vuoto a contatto con una non-natura” (non troppo dissimile a quello che Jameson chiama “paesaggio degradato” caratterizzato da superficialità e debolezza della storia, e che produce nuove forme, schizofreniche, di temporalità). E se Deleuze accennava al ruolo dello zoom (strumento vertiginoso di controllo che permetterebbe di «toccare la tecnica» e che alla citazione preferisce l’assimilazione) e alla mise en abyme cinema-tv (che sarà cronenberghiana – oltre che depalmiano), De Palma non smette di far divorare il cinema dalla proliferazione ipertrofica e polimorfa di dispositivi di immersione seriale e di avvicinamento iper-accellerato: in questo caso, dirette you tube, video con telefoni cellulari, filmati con droni. Ed è proprio uno di questi dispositivi, una videocamera adattata all’arma automatica di un terrorista, a permettere la creazione di una macchina ibrida che è la variante postmoderna e digitale di quella, di fattura più artigianale, creata dal Mark Lewis di Peeping Tom-L’Occhio che uccide (1960).



Nel film di Michael Powell il “cineasta amateur” (inviato del giornale fittizio “Occhio sul mondo”, che immaginiamo come una variante perversa-necrofila della kinopravda vertoviana) “pornografo” (si guadagna da vivere facendo foto erotiche: “con quella cinepresa sembra tu abbia tre braccia”, le dice freudianamente la ragazza di cui è innamorato) e assassino seriale, aveva adattato alla cinepresa una lama retrattile e uno specchio (per obbligare la vittima a vedere il proprio volto alterato dall’orrore: «se la morte ha un volto, potevano osservarlo», confesserà alla fine, prima di filmare la sua stessa morte).

Nel film di De Palma i killer dell’Isis adattano ad una mitragliatrice una videocamera che filma sia lo scenario del crimine (le reazioni stupite o terrorizzate delle vittime, le esplosioni e il sangue), sia il volto dell’assassina mentre agisce, guidata a distanza dal leader della cellula terroristica, il tutto inviato in diretta streaming. Se nel film di Powell uno degli omicidi avveniva in uno studio cinematografico deserto (Mark uccide “una controfigura” e continui sono i riferimenti che segnalano l’ingresso in una terra di mezzo finzionale: i cartelli luminosi con scritto «Stage», le luci rosse che si accendono quando la sala è occupata, e quelle che Mark “spara” sul volto della vittima, fino ai segni che regolano le posizioni degli interpreti sul pavimento) De Palma utilizza, per la strage della donna kamikaze, di nuovo, dopo Femme Fatale (film caratterizzato anch’esso, e forse non è un caso, dal medesimo fil rouge sonoro e sfinito, del Bolero di Ravel) lo scenario glamour di un festival del cinema, con il tappeto rosso, le auto di lusso e il caos di fotografi e divi.

Entrambi, Peeping Tom e Domino, sono riflessioni sul potere dello sguardo, inteso come vacillamento essenziale e atto misconosciuto e inafferrabile a cui possiamo dare corpo solo nella dimensione dell’esistenza dell’altro. Ma se nel primo caso si tratta di quello sguardo che ci scopre, in una vertigine cieca, nella posizione di voyeur, peeping tom appunto, che osserva il corpo nudo (pensiamo, ovviamente anche alla scena del camerino di Body Double o le foto dal balcone di Femme Fatale) o, come ancora nel film di Powell, il viso dilatato dall’orrore, diverso è il caso della terrorista francese dell’Isis in Domino. Quest’ultima, grazie a questo meccanismo double face che lo split screen traspone in maniera lucidissima, da un lato "si vede vedendo" (cioè si vede dal di fuori, come in uno specchio), e dall’altro "si vede vista" (il volto della giovane attrice che fissa la sua assassina un attimo prima che le faccia esplodere la testa).

Se l’anta sinistra dello split screen mostra il viso del terrorista-terrorizzato, quella destra mostra, quindi, la ferocia cieca del terrore (che nello stesso tempo ci vede benissimo), attraverso il continuo scarto oscillatorio e tremante del mirino (restituito attraverso l’utilizzo di una soggettiva traballante che suggerisce tutta la densità esistenziale di un corpo in panne), mirino che oppone alla registrazione passiva la fessura della caccia tragica e della presa sul corpo del peso dell’azione omicida, che precede l’esplosione (e che viene chiamata, in gergo, “mitraglia umana”).



Viene in mente un romanzo di DeLillo, Mao II, che riflette anch’esso sul campo e controcampo con il terrorista: ma se in De Palma si tratta di uomini (o donne) già completamente dominati dall’ottica stragista del dominus, il romanzo ci offre la visione del terrorista as a young man: orde di ragazzini affamati, in ginocchio, con la foto del leader Al-Rashid attaccata al collo e il volto coperto da un passamontagna. È il leader stesso a spiegare la loro formazione paradossale: i giovani kamikaze hanno bisogno di una «realtà esterna, completamente indipendente da quella dei padri». Se indossano un cappuccio, è perché non possiedono più un volto e una voce. I loro tratti, continua DeLillo, sono tutti identici: non hanno bisogno di elementi individuali, ma solo delle loro armi, che «costituiscono la bellezza dell’uomo».

In entrambi i casi tutto sembra suggerire una divaricazione profonda fra l’orrore del corpo vittimale esploso o fatto a pezzi dagli spari e il cinismo della sua riproduzione video, ottusamente mandata in onda in diretta dai network tv (e da internet), in quella dicotomia che Zizek avrebbe tracciato fra la «Passione del Reale» e l’ «Effetto reale». La prima sarebbe (da Badiou) l’esperienza diretta del reale nella sua estrema violenza: il terrore fondamentalista, ad esempio che è, insieme, violento spettacolo visuale (la sequenza “girata da professionisti” dei corpi inginocchiati e decapitati sulla spiaggia) e “reazione ideologica contro l’ideale occidentale di esistenza” secondo Zizek. Il secondo, è la mancanza di realtà, costitutiva del tardo capitalismo, spettacolo spettrale e inganno scenificato, mondo oggettivo convertito in simulacro, e, in cortocircuito finzionale, gli stessi atti terroristici diventerebbero realizzazione degli incubi paranoici messi in scena dai desaster movie hollywoodiani (un solo esempio: la parte iniziale di Mission Impossible: Fall Out, quando i network televisivi mostrano un triplice attentato nelle tre città sante, per poi capire che si tratta solo di una messa in scena, in una stanza delle finzioni con le pareti mobili, orchestrata dai tre agenti speciali, per far parlare a un terrorista).

Un’ altra dicotomia che De Palma sembra sviluppare con particolare forza è quella fra questa desertificazione dell’immagine operata dai video degli attentati, sempre più tecnicamente fantasiosi nella loro ottusa messa in scena dell’orrore e la ritualità. Pensiamo alla scena dell’attentato esplosivo che deve essere videoregistrato da un drone, nella Plaza de Toros di Almeria durante una notte di corrida. Da un lato l’occhio meccanico impegnato in un sorvolo assoluto libero – indiretto, che da arma bellica e «occhio che uccide» a distanza (si legga quella che scrisse Edoardo Bruno a proposito di The good kill su Filmcritica), diventa strumento di registrazione coreografica (il momento della discesa a picco del drone sarebbe dovuto coincidere con l’esplosione del kamikaze, dopo un movimento in picchiata dell’occhio meccanico sulla folla), dall’altro, in montaggio alternato, le evoluzioni del matador contro il toro.



Da un lato la re-edizione virtuale e lo sterminio del reale attraverso l’accumulo di visori che, nella perfezione sterile dell’HD, inseguono il fantasma della definizione assoluta, obbedendo all’assurdo di una continuità infinita senza ellissi e al paradosso di un’ aura inautentica, del simulacro e del suo splendore vuoto (l’ellissi che sarebbe dovuta essere l’esplosione è, in realtà, solo un altro tassello in più di questa ricreazione prolissa fatta di pixel di quello che Baudrillard definirebbe “psicodramma della sparizione e della trasparenza”); dall’altro, la visione della tauromachia che De Palma intende in maniera antitetica rispetto ad un altro filosofo della visione come Georges Bataille: assai prima dell’occhio che uccide (il drone), una storia dell’occhio.

Si sa che nel suo romanzo scritto sotto pseudonimo Bataille interpretava la corrida come una cerimonia sanguinosa e violenta di vita e morte, satura di elementi erotici che culminano con il corno del toro dentro l’orbita del matador Granero (e il testicolo del toro dentro la vulva della protagonista, la splendida Simone). De Palma sembra concentrarsi, invece, sugli elementi plastici legati alla pura bellezza esteriore: non ci sono stoccate, né morte, né sangue, né erotismo nell’arena, ma solo l’arabesco purissimo del drappo e del toro, il tutto secondo un disegno molto più riuscito di quello, poniamo, pregno di analoghi movimenti esteriormente intensificati però di natura assai più superficiale , che faceva montare insieme a John Woo il flamenco spagnolo (tauromachia danzata) con la rotazione impossibile e simultanea delle due auto in Mission Impossible II.

Qui si tratta di contrapporre, in maniera assai più profonda e teorica forze di tipo opposto: la forza cieca della tecnica e della desertificazione a quelle, opposte, della bellezza plastica della fiesta brava; la riproduzione serializzata online con l’attimo che esplode come un bengala luminoso; il supplizio terrorista con il sacrificio della tragedia classica che l’anima iberica ha trasferito sull’arena; la direzione implacabile della linea retta (il drone che plana telediretto verso l’assassino) con la linea serpentina della libera variazione (i mille movimenti patetici del panno sventolato dal matador) e la circolarità dell’arena. Infine si tratterebbe di sovrapporre un occhio meccanico che registra (il terrorista) con un occhio umano che contempla (gli spettatori nella Plaza) e la messa in abisso della simulazione con la ritualità del cerimoniale. Nello stesso tempo, le febbrili tendenze contraddittorie batalliane vengono comunque assorbite da De Palma, ma alla sua maniera: a morire come Granero, con la punta - non del corno del toro ma del drone - conficcata nell’occhio, è il terrorista, secondo quella scarica di piacere che lo spettatore prova nell’osservare il male sventato e punito in maniera ipertrofica (che Tarantino ha utilizzato, in termini diversi, sia in Once upon a time in Hollywood che in Inglorious Basterds).



Ritualità che permette un appunto ulteriore, relativo alla presenza del barocco nel cinema di De Palma. L’insopprimibile vocazione alla profondità del regista (una sequenza su tutte: l’inseguimento wellesiano dell’ “indiano” nel cunicolo di Body Double, che suggeriva, insieme, quello che Wolfflin nei suoi Concetti di storia dell’Arte avrebbe definito come «penetrazione più effetto di movimento») era sempre stata capace di introdurre slabbramenti e spazi vuoti-luminosi opposti alla struttura a fregio con valore di coesione e alla scomposizione del quadro in parti singolari tipica della prassi realista-hollywoodiana classica e pre-wellesiana. De Palma inseriva, all’interno della paratassi manipolatoria dell’immagine azione, elementi puramente affettivi come la paranoia che, attraverso la sua ricorsività eccentrica, insinuava l’ombra del dubbio e una non conformità di fondo nella radice di certezza esistenziale della realtà, ricorrendo a un movimento ininterrotto e senza fine da un livello all’altro e ad una «certa maniera vaga» che si dirige all’occhio e al suo sapere.

L’utilizzo, da parte del regista, delle immagini digitali (pensiamo, soprattutto, a Redacted) segnala il trionfo di questa oscurità relativa diventata più che mai ontologica alla stessa immagine cinematografica che, sempre manipolabile, si scopre definitivamente imperfetta nella sua vocazione di restituire un brandello coerente di mondo, immagine a statuto incerto, tangente all’allucinazione e sempre a un passo dall’esplosione nei frammenti di pixels che la costituiscono.

La “profondità”, da orientazione ottica, da struttura compositiva (pensiamo al frame di John Travolta che incontra Nancy Allen nella stazione di Blow Out: i due si trovano ai due lati opposti del quadro mentre dietro di loro si allarga come un tunnel la strada ferrata fino allo sfondo, ovvero si apre o si snoda in mezzo a loro un “paesaggio”) consente adesso, grazie proprio all’utilizzo di immagini digitali, e forzando i termini di Wolfflin, di “sottrarre la superficie allo sguardo”, svalorizzarla e convertirla in qualcosa carente di significazione o con significati stratificati (in Domino, il detective vede le foto del suo amico e la sua amante insieme, felici, e, dopo quelle del feto che cresce nel ventre di lei). Il piano, in De Palma, si scopre, oggi più che mai, stravolto e spostato, e suscettibile di rivelare una natura profondamente morale.

Infine, il titolo dell’opera, Domino sembra, da un lato, riferirsi al Padrone, al dominus, che in De Palma, nonostante tutto il libero sistema degli slittamenti e delle permutazioni, è sempre lo sguardo; dall’altro, richiama l’idea di gioco (importante in un altro cineasta che condivide con De Palma la comune radice hitchcockiana, come Steven Soderbergh): “fare domino” implica collocare prima degli altri le tessere del gioco assegnate (attività, questa, che sembra riguardare un po’ tutti i personaggi del regista, impegnati in un gioco di incastri a partire da elementi parziali e fuorvianti che è anche, sempre, una corsa contro il tempo) dove esistono termini come “lato aperto” (la metà della tessera che non è a contatto con un’altra), e che permette una serie amplia di permutazioni, e regole del gioco rigide. “La sorte indica chi deve posare per primo” recita una di esse (in questo caso “a posare per primo” è il terrorista che uccide il poliziotto, o la CIA che lo manovra), e quello che dovrà giocare per ultimo ha il diritto di “mischiare le tessere” (è la poliziotta che, per vendetta, alla fine uccide il terrorista che aveva a sua volta ucciso il suo amante, mandando all’aria i piani dell’agenzia di intelligence che utilizzava il primo come soldato).

Ma Domino è anche un abito che camuffa e occulta, una tunica col cappuccio che copre la testa e il viso e si allarga in ampie pieghe rendendo irriconoscibile chi lo indossa. Si tratta della bauta, costume in maschera veneziano (come veneziano è il gioco del domino, importato dalla Cina) che abbiamo visto nei quadri di Pietro Longhi e, anche, indossato da Tom Cruise in un altro film teorico come Eyes wide shut di Stanley Kubrick (che ritorna, trasversale, in questo film, proprio nella storia d’amore segreta fra il poliziotto ucciso e la detective che aiuta il protagonista nelle indagini) altro film dove, come in De Palma, l’occhio aperto-chiuso è l’organo colpito a morte perché, teorico e selvaggio a un tempo, sapeva troppo.

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