Sokurov-Mother-and-Son-ForestÈ passato un anno da quando Uzak, in un ruminato pomeriggio di fine dicembre, mentre guardavo fuori dalla finestra la nenia delle finestre tristemente addobbate, s'accese sfoggiando un viso lubrico che mostrava nel suo specchio, visioni diverse, screzi, sogni, nottetempo. Nel frattempo sono usciti 4 numeri, uno ogni stagione, e decine di recensioni settimanali, secondo la natura ibrida (o ambivalente) che avevamo scelto di darle. Per marcare questo segmento di esisteza (o di resistenza), il nostro grafico Nino Perrone ha deciso di cambiare un poco la grafica, qualche tinta, la font dello schermo-testata, entro cui continua a riprodursi senza sosta, e con ancora maggiore suggestione, l'illusione della proiezione.


Ora, il 2011 s'è chiuso con l'uscita in sala di un altro film totale, quel Faust che fa il paio con The Tree of Life, perno intorno a cui ruotava lo scorso numero. Ancora un'anamnesi, nelle immagini di un verde deteriore a richiamare l'entroterra, muschi e boschi della mitteleuropa, lì dove nel film di Malick tutto si perdeva (o si riaveva) come in aria, nella volatile costellazione di vetri, veli, trasparenze (anche dei volti).
Ma il nostro sguardo tende, per costituzione, a spostarsi sul contesto (sui contesti di un cinema marginalizzato per quanto topico) e si sofferma sul centro, il Faust appunto e la tetralogia sokuroviana (saggiata a puntate), nella misura in cui comincia a spostarsi verso l'esterno, passando subito attraverso i centri limitrofi dei film più belli o comunque più importanti (e contestati) visti nell'ultimo periodo, da Miracolo a Le Havre di Kaurismaki al cronenberghiano A Dangerous Method (sulla cui immersione erotica, peraltro, ho voluto anch'io dire la mia sul "Filmcritica" in uscita), a Melancholia di Lars Von Trier, lambendo anche una zona fittizia (spettrale), un film che non esiste ancora e che speriamo alla fine prenderà vita, quella Bella addormentata di Marco Bellocchio, alle prese con l'ostracismo (oscurantismo[?]) della Commision Friulana.


Il percorso verso le infinite periferie epistemiche (nell'obiettivo paradossale di enuclearle e quindi di riscontrare un centro, che sia però fenomenologia del plurale) si fa congruo in un fitto dialogo non solo con lo spazio, con i territori spuri della letteratura, del teatro, della musica, ma anche con il tempo (e mi piace allora un'ulteriore indagine [anti]medievalista), perché capita ancora che l'opera granisca dal passato, torni a irradiarsi col suo portato dialettico e a intrudersi naturalmente nel contemporaneo, fecondandolo, e facendoci sospettare che il tempo, alla fine, non esista (come continua a dirmi Lorenzo fomentando il niccianesimo che da tempo mi tiene) o che la faglia che istituisce nelle nostre vicende, non sia poi così discriminante.

Le corrispondenze indicate dal blocco di spunti teorici presenti in questo numero 5, intimamente legate al ricordo di Vincenzo Buccheri e del suo La scienza del sogno, sono sinapsi, connessioni nervose, che presiedono a un pensiero (liminare) non solo sincronico (indagando spazialmente lo scambio, il limine, tra diversi linguaggi), ma anche diacronico, cercando di fare emergere quello che non si conosceva (perché fuori dai meccanismi del Mercato, come nei casi, ben diversi tra loro, di Chabrol e Watkins), ma anche ciò che (forse per gli stessi motivi) si è dimenticato, quel fare cinema comunque e ovunque, anche sotto le bombe degli alleati, nella Germania del '44, sotto i ponti e sulle chiatte semoventi, dove Helmut Käutner si ostinava a raccontare della “teoria” del triangolo amoroso. E da lì, lo scarto al topos dello shinju (racconto di “suicidi comparati” degli amanti infelici) di Shinoda Masahiro, il passo è davvero breve e non può non portarci, peraltro, sul palcoscenico di un ibrido Blackbird.

Roma poi (il suo Festival) è solo il centro (in cui pure affiorano, a volte, immagini vive, cioè consapevoli della propria mortalità), il punto di fuga per lo scandaglio delle periferie in cui scintillano visioni inaspettate. “Avvistamenti” e il "Bari Queer Festival", che ci hanno messo negli occhi i frammenti traslucidi rispettivamente di Schirinzi e Tabakman, quell'Eyes Wide Open (monito e tentativo disperato di aprire a dismisura gli occhi, alla ricerca di un altro dell'immagine) che rappresenta, ancora una volta, com'è successo per la silente, armonica folgorazione di Delta, un territorio terracqueo su cui espandersi. E in questo senso, nella nostra ostinazione a scrivere, ogni lunedì, di cinema “contemporaneo” mai distribuito nella nostra Italia mercatale – non per un inane gusto distintivo, ma al contrario, per cercare altrove accensioni che rinsaldino, anche qui, la comunità – siamo contenti di avere incontrato, mentre cercavamo “primizie del deserto”, i compagni di viaggio della Atlantide Entertainment (che s'aggiravano nei paraggi, col loro bagaglio di storie esotiche), col cui aiuto speriamo di poter mostrare, oltre che ripensare criticamente, durante l'esplorazione, fulgide visioni. E allora, è proprio il caso di dire: buona visione.