schirinzi01gIndifferenti significanti

Dopo avere ospitato, tra gli altri, Zbig Rybczynski, in una delle edizioni scorse, e aver ri-scoperto figure topiche del sottobosco del cinema sperimentale soprattutto italiano, l'“Avvistamenti” di quest'anno s'è concentrato (quasi) tutto sull'opera di Carlo Michele Schirinzi, uno degli eponimi di un fare cinema ultraindipendente (nel chiuso masturbatorio della propria camera), quindi oltre l'oleografia (in questo caso salentina) che potrebbe derivare dalla promozione delle istituzioni, sempre pronte a sciorinare la bellezza delle vedute, la genuinità dei prodotti tipici, e, in seconda battuta, la portata di presunte opere d'arte, invece plasticoso frutto del più corrivo Mercato (interno).


Perciò l'opera di Schirinzi, se partiamo dalle ultime cose, verifica piuttosto l'obsolescenza dello sciovinismo patinato, barocco, perpetuato dalle proloco; e fenomeni di inquinamento causato proprio da chi si pone, magari con pompe o cipigli, come tutore dei panorami incontaminati. Emblematica è, allora, la scena di Frammenti di un confine, in cui una donna non esita a scaricare la sua plasticata raccolta differenziata sul terriccio di una costa brulla che guarda al mare, mentre Schirinzi (che s'aggira clownescamente tra alveoli e scanalature) si fa idiota testimone dell'ipocrisia (e frivolezza) che presiede alla fenomenologia della cartolina. Una mistione di grottesco (simile a quello tracimante delle prime prove) e di rigore critico, che sedimenta un cinema inclassificabile, divagatorio, scentrato in direzione di significati, anzi di significanti in-differenti, potenziali. Del resto si tratta di un film (commissionato dal Torino Film Festival) girato in ricordo di Corso Salani e della sua ricerca verso i margini ‒ nel rispecchiamento di geografia (politica) e morfologia dell'immagine cinematografica ‒, verso la deroga dalla normatività delle produzioni; e mi sembra che Schirinzi ne interpreti con grande acume e inventività lo spirito, secondo quella poetica, coesistenza degli opposti, che è propria del pastiche e che caratterizzava già gli esordi “dadaisti” di Amami e baciami o Camera con vista.

Già in quelle movenze sgraziate e meccaniche, che scandivano un grottesco ora immediatamente chiassoso alla Jarry, ora più plumbeo e laconico secondo il modello di Ciprì e Maresco, passando fondamentalmente per Craig e Carmelo Bene, era incubato il germe di una tenerezza quale epifenomeno del dimenarsi (osceno e sciocco) di questi esseri imbolsiti e stipati in bianche e slabbrate mutande. Ed era implicita la denuncia sdegnosa (evidente ora in Mammaliturchi!, Notturno stenopeico, in Eco da luogo colpito) e lo scandalo di una realtà (fuori dalla camera) tutt'altro che idilliaca e tarantata, benché pienamente salentina, e piuttosto “in rovina”, addirittura scuramente macilenta, sbrindellata da un'erosione verminosa, come quella mostrata beffardamente in Riesumazione.


A margine di questo corposo blocco schirinziano, la rassegna curata da Antonio Musci, Daniela Di Niso e Bruno Di Marino ha traguardato altre degne, dense visioni. Innanzitutto l'ascendente sinfonia fogliacea di Giuseppe Boccassini (col suo 000001 B#0), in ambiente boschivo berlinese, sulla via emotiva dettata dall'elettronica di Fabio Orsi e, direi, dal retaggio astrattivo-cromatico di Brackhage, ferme restando le basi realistiche del procedimento, appunto nel baluginante emergere della natura. Poi, il mediometraggio di Francesco Dongiovanni, Densamente spopolata è la felicità, ambientato sull'alta Murgia, seguendo la giornata dell'ultimo pastore rimasto in zona: film solido, rigoroso eppure lieve, tra De Seta e Wiseman, con giusto qualche inserto naturalistico di troppo (intermezzo come posticcio dentro il flusso di piani lunghi), ma che alla fine ha l'ampio respiro e l'incesso del vento e del banco di nubi, cioè di transeunti piani-sequenza, in fuga sull'altopiano.

Infine Valentina Dell'Aquila, garroniana sin dalla prima scena del suo Saulo, nello scandaglio (critico) di un Veneto campestre tanto opulento quanto gelidamente alienato: un lavoro di saturazione cromatica dell'immagine davvero interessante; grande sensibilità per la luce, a fronte di un uso del “fuori fuoco” (anche in questo a mo' di Imbalsamatore) forse troppo esibito. E pure quel Pasolini declamato vertiginosamente, che sulla carta sarebbe potuto sembrare forzato o didascalico, rende il lavoro ancora più espressivo e straniato, e non riscalda certo la superficie, e proprio la carne desolata,  freddamente ischeletrita della pellicola.
Purtroppo non posso dire di Folder di un bravo ‒ mi dicono ‒ Cosimo Terlizzi, perché non ho potuto vederlo, ma tant'è, ci sarà tempo, forse.

(L. A)


Il fascismo delle forme e l'esperienza esteriore

Raramente capita di vedere al cinema un'immagine che duri la stessa frazione di tempo in cui dà l'impressione di esistere. Ed è forse per questo che, sinora, Carlo Michele Schirinzi al cinema non s'era mai visto.
Sullo schermo compare un'immagine, sembra definirsi come personaggio (interpretato da Schirinzi stesso) però subito sfugge a qualsiasi significato e si liquefa, diviene riflesso, macchia e poi «una squama, un'esalazione»: accade in Terminale, uno dei suoi primi lavori, e quindi anche uno dei più lontani, terminale appunto, inizio postumo e testamentario del suo percorso artistico. Che si esplicita meglio proprio in Perco(r)(s)so, dove il corpo di Schirinzi, acefalo, nudo e accasciato, scompare al cospetto di un'illuminazione, che lo percuote e lo brucia come se fosse celluloide, e si annulla nel nero della dissolvenza.
S'è nominata la celluloide, ma a sproposito: Schirinzi gira in digitale e monta in camera (spesso, in camera da letto), affascinato dalla sequenza di 1 e 0 che compongono l'immagine, rispettivamente a significare il pieno e il vuoto. Schirinzi cerca lo zero di ogni mezzo per annullare il formalismo che ingabbia l'estetica cinematografica, a vantaggio di un grado 1, minimale, quasi amatoriale dell'immagine. 

È una scelta anche politica: si intravede nei cortometraggi di Schirinzi l'inquietudine per il ritorno di un fascismo, prima di tutto formale ed estetico, che si esplicita nell'omologazione e nell'uniformità dei prodotti artistici. È l'inquietudine di Uniforme, in cui tutto è indistinto, non si è né uomini né donne ma solo fascisti. Una castrazione della soggettività operata dal potere attraverso la creazione di un continuo stato d'assedio, ben rappresentato in All'erta, in cui ognuno è chiamato al ruolo di soldato tenuto per le palle: palle riprese dietro la sempre presente ombra della gabbia fascista.
Il nemico immaginario, nell'immaginario del fascismo attuale, è l'immigrato, ripreso dalla retorica dell'informazione come facente parte di una massa indistinta e minacciosa, compatta e uniforme. Forse per questo in Notturno stenopeico Schirinzi cerca di restituire a ogni profugo l'individualità che gli spetta individuandolo attraverso un semplice e arigianale occhio di bue per svincolarlo dalla massa amorfizzata dalla narrazione imperante.

Non si deve però commettere l'errore opposto e quindi scambiare Schirinzi per un retore dell'antiretorica. L'antifascismo dei suoi lavori è talmente radicale da andare anche contro la retorica dell'antifascismo. I fascisti qui rappresentati sono ben lontani dalle narrazioni comuni: i fascisti sono marionette, pupazzi ridicoli, simili all'Ubu Roi di Jarry, ma non per questo meno pericolosi, anzi, la loro pericolosità è riposta nell'inconsapevolezza di essere ridicoli.

Andando ancora oltre, l'opera di Schirinzi sembra una sorta di resistenza a qualsiasi storia, a tutto ciò che è memoria: la parodia delle "belle canzoni di una volta", i fallimenti immancabili, il ritorno degli stessi errori (la doccia senz'acqua di Sonderbehandlung sembra un rimando a quella fatta da Schirinzi vestito in Dé-tail), la liberazione estatica e pornografica dal rispetto di qualsiasi ingiunzione narrativa sono elementi disparati che hanno però in comune la ricerca di una fuga da qualsiasi forma di persistenza.
I personaggi si muovono nello spazio, interagiscono con gli oggetti e fra loro, fanno esperienza del mondo, ma quest'esperienza rimane superficiale, non intacca la loro interiorità, che rimane vuota, come uno zero digitale.

(M. S.)


Avvistamenti a occhi chiusi

«la velocità massima è uno stato di quiete»
(S. Beckett)

Nel buio di una sala in salita un soggetto senza volto si aggrappa a un muro per slanciarsi su una scala, entrare in una stanza e oscurarne le fessure, i varchi, gli specchi, gli occhi: per lasciare un occhio (bendato), il monocolo della macchina da presa, a inquadrare frontalmente lo sgomento della percezione di sé, il preludio all’estinzione dell’immagine.
La Storia viene gradualmente privata di narrazione, l’azione si riduce alla messa in scena del meccanismo automatico dell’esistenza, i personaggi sono assorbiti da un unico soggetto extraterrestre che non fa che precipitare, ec-cedere allo sprofondamento gravitazionale. Un soggetto muto, purificato, lieve, senza pensiero. Di un altro mondo.

Questo è “Film”, cioè Cinema, quello che dilata il tempo della velocità della luce e lo ribalta nel movimento quieto delle palpebre socchiuse; il tempo breve della visione dei corti di Carlo Michele Schirinzi, lunghi tre giornate. In questa impossibilità di compiere movimenti definitivi siamo rimasti fermi in una prima fila arrampicata, a sfidare la gravità anche noi, come i resti di uno schermo crepitante canzonette vintage e luoghi spopolati, attraversato da folgorazioni analogiche, da corpi nudi, nudi di repertorio, pelle scavata e pietra intarsiata, macchine da presa, macchine da scrivere, mutazione di marionette, Ubu Re inadeguati a stare al mondo e quindi bendati, accecati, sprofondati su una sedia a dondolo. Siamo rimasti come pendoli a oscillare in un’altra dimensione dove non è poco se non si sono salvati gli occhi. C’è qualcosa di teatrale in questo cinema Odeon in cui l’azione rinasce dai solchi lasciati dallo sguardo sulle cose immobili e gli attori sono maschere tragiche con gli occhiali da sole nel buio.

Notturno stenopeico, Zittofono, Palpebra su pietra, Fuga da Nicea rappresentano una linea di fuga grottesca in direzione di un divenire altro, spinto verso l’orizzonte spopolato di ruderi e ambienti domestici, set improvvisati in cui è vietato parlare. La parola è sbattuta, compressa e disturbata: “squamata”, come l’immagine, nel mediometraggio Astrolìte nel quale all’impronunciabile deus ex-machina egh, è affidato il compito superumano di dire quello che il cinema (non) è: «è mutazione del mondo. Un’esalazione, una squama».
La fede nel visibile è una grande macchia scura impressa nel campo visivo; la verde armonia del brulicame sotterraneo nei corti di Giuseppe Boccassini (000001 B#0); la dispersione nel paesaggio estinto di Francesco Dongiovanni (Densamente spopolata è la felicità). Fede nel visibile è la musica di Gabriele Panico per Film (1964) di S. Beckett che ha chiuso la Mostra e gli occhi dei superstiti spettri arrampicati in una sala in salita.

(G. A.)