Era l'autunno del 2010 - un'ottobrata espansa, di quelle selvagge, che bruciava cumuli di foglie e ti faceva sentire sulla pelle l'ustione di fuochi fatui, il flutto sanguinoso di tutti quei tramonti - quando da un confabulare serrato nacque l'idea di Uzak, sotto l'egida della casa editrice «Caratterimobili». Il cinema era solo uno degli interessi di una redazione in embrione, già eterogenea e militante, così come la si era immaganata: vi entravano la letteratura, la filosofia, la musica, cioè la condizione pura, autentica delle cose, per quanto rivoluzionaria: la poesia, la natura cinematografica del mondo. Da qui la sezione al centro di questo numero 38.

Il titolo, Uzak, veniva da Ceylan, dall'impressione che quel film aveva destato: campi lunghi apparentemente immoti, nuvolosi, freddi, quando poi all'improvviso scaglie di neve morta si staccavano dal cadavere di una nave arenata. L'oscura, fulgida poesia del panorama, della panoramica, che si offriva allo sguardo, che si dilatava nello sguardo, silenziosa e brulicante; un cinema che non aveva bisogno di parole ma si fomentava in continuazione bruciando la materia del proprio essere tarkovskiano, del proprio stare sotto i raggi di Solaris, del proprio tempo ossificato, espanso.

Anni dopo avrei ritrovato quelle rovine, la poesia della rovina che Benjamin aveva incastonato nel dramma barocco tedesco, e tutto un ecosistema in cui sguazzare, saltare, volare in uno sfondo oramai cinematografico e non più realistico, per eccesso di realtà, di tempo dato, sdato alla realtà, in Storm Children di Lav Diaz: navi rugginose incagliate al fondo, il piano acqueo divenuto lattescente, tutta una vita, nel suo clamore e nelle sue inquietudini, nata, comprovata nell'immagine, al di là del referente del mondo.

Ma ci sono stati anche Tsai Ming Liang, Weerasethakul, Hsiao-hsien in questi anni, e Reygadas, poi il Marcello di Martin Eden, con quello sbaraglio temporale in cui perdersi, dimenticarsi nel mare di sangue del tramonto. Li abbiamo fatti nostri ponendoci sul baratro di queste immagini, in bilico, praticando la scrittura non come affermazione, certezza, tracotanza, ma come transito, opera di perdizione delle, nelle parole, passaggio attraverso varchi e varchi, e sogni.

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