Nonostante i vaticini più catastrofici basati sull'idea che non si sarebbe tornati mai più alla normalità, che il virus avrebbe modificato radicalmente la nostra pratica di vita, il nostro quotidiano anche più banale, mi sembra che questa normalità alla fine, e nonostante il delirante, pecoreccio ostruzionismo dei cosiddetti no-vax, stia tornando. E forse l'indice più chiaro di ciò è rappresentato dal ritorno nei teatri, nei cinema, potendo contare sullo loro capienza massima e non su quella tragicamente dimidiata che ha reso la vita difficile agli accreditati della Mostra di Venezia conclusasi lo scorso 11 settembre.

È la pervicacia e la ridondanza delle immagini dialettiche di Benjamin - la possibilità di formulare o constatare un assunto congruo, un'idea, un disegno; vederlo sfolgorare, sedimentarsi, poi magari tragicamente consumarsi in una scintilla - su cui si regge la nostra civiltà e a cui essa s'aggrappa nei momenti cupi della storia; quelle immagini la cui sorgente e persistenza non possono che essere officiate in questi luoghi ovattati, vellutati, specie di templi in cui l'umano si constata e si celebra.

Ecco allora che dopo i Festival, che si sono svolti malgrado tutto e in qualche modo (presumibilmente il prossimo grande Festival, quello di Berlino a febbraio sarà di nuovo in presenza), questo autunno si gremisce delle immagini fulgide uscite dai palazzi del cinema, dalla costellazione di sale, di piazze, di arene. Molti film sono italiani e, tra l'altro, magnifici: Qui rido io di Martone; A Chiara di Carpignano; Il Buco di Frammartino; Ariaferma di Di Costanzo.

Tra gli americani sicuramente Il collezionista di carte di Schrader, distribuito proprio a ridosso del concorso veneziano, cosa che in qualche modo stupisce se si pensa al destino di un capolavoro come First Reformed. Tra i francesi c'è Titane di Julia Ducournau e, in uscita a novembre, L'Événement di Audry Diwan su cui mi sono già espresso qui su Uzak. E poi ancora i due film di Hamaguchi, uno reduce da Berlino, Il gioco del destino e della fantasia e l'altro da Cannes, Drive my car, che rilevano ed esaltano una volta di più quella zona di salvezza che è il cinema, isola galleggiante in cui i personaggi, le complessioni, i corpi trepidanti si confondono tra spazio e tempo, si possiedono come spettri, demoni ricolmi di desiderio, perchè forse finchè avremo desiderio saremo salvi.

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