Per lo più, il dibattito intorno a L'Événement di Audrey Diwan, vincitore del Leono d'oro all'ultima Mostra di Venezia, si sta svolgendo intorno alla tematica, al cosa, il referente che viene espletato dalle immagini, mai intorno alla forma, al come la regista vede e mostra le cose, al suo sguardo, il gesto tutto cinematografico, che è tutto appunto, "la cosa ultima" del cinema, l'atto di aprire gli occhi e guardare le cose in un certo modo.
Assodati i temi e la condivisione totale che se ne fa, che ne faccio, cioè il sacrosanto diritto all'aborto (che suona come un ossimoro soprattutto per lo strenuo, tronfio difensore dei sacri, santi principi cristiani che si scatenerà nella reprimenda non appena il film sarà uscito nelle sale) e la necessità che la donna si emancipi, si possa emancipare, liberare dalla condizione di maternità (tanto più se coartata) e le enormi responsabilità del maschio, anche solo per la pretesa di eiaculare senza problemi nella vagina; e venendo ora alla forma, quello che non convince è proprio il gesto registico di Diwan, che è freddo, ostile verso il feto, quasi fosse un alieno da espellere o anzi uno stronzo da defecare, il quale in effetti piomba nell'acqua del cesso con tonfo simile a quello prodotto dall'evacuazione. Ciò che è fetale è ridotto al fecale. L'accento è posto sul peso, sulla gravità dei corpi di risulta, inerti, sull'ingombro dell'oggetto interpolato nel ventre, da estirpare con terrore, repulsione, proprio come in un film dell'orrore, un Alien fuoruscito dallo stomaco, una Covata malefica brulicante di peste.
Morto Nancy, c'è in tutto il film un'estrema, ponderosa freddezza, un cinismo alla Hanake rispetto al corporale (e al sessuale), come se le sacrosante, ripeto, le sacrosante rivendicazioni femminili rispetto a un mascolino sconcio e idiota, debbano passare necessariamente attraverso la violenza, la durezza, lo sprezzo, che nel film portano al congelamento dei tessuti (del film), del caldo fluire dei vasi sanguigni, del concitato fluire della vita. Tutto è dolore fisico (e lo spettatore lo sente tutto: in questo senso il film è efficace), fitta lancinante allo stomaco, provocato dalla gelida penetrazione di stecchi, di attrezzi appuntiti nel corpo gelido.
Ripeto, è una questione di sguardo, di prospettiva: Diwan sceglie la prospettiva fisica, il corpo come conduttore di freddezza, di cinismo, espungendo completamente l'angolazione esistenziale, lirica. Nell'Événement manca il controcanto lirico legato al tragico, legato alla tragedia dell'avvenimento, dell'Evento (l'evento cinematografico innanzitutto), che è la tragedia dell'apparire in quello che Cartarescu chiama il «grande arazzo» dell'esistenza e del sussistere malgrado tutto, per poi scomparire.