Questi primi mesi del 2019, mentre si aspetta tanto Harmony Korine quanto Weerasethakul o Paul Verhoeven, sono stati il tempo del ritorno di due grandi americani, molto diversi tra loro in quanto a esperienza e a idee sul cinema.

C'è stato Clint Eastwood con quello che forse è il suo film più bello (Il Corriere) e una specie di testamento (in cui convergono esistenzialismo, politica, etica), e poi N. Night Shyamalan autore del capitolo finale della trilogia sui supereroi, quel Glass che, a ben guardare, potrebbe anche essere l'inizio di una nuova saga. Ma due film che, praticando tra loro l'antitesi, arrivano a conclusioni simili, vitalistiche, comunitarie, sia pure nella contenzione, continuando a coltivare orchidee, la loro bellezza fugace; o nel luogo di passaggio di una stazione, proiettandosi nell'universo.

Finali straordinari entrambi, in rapsodia di luce e vertigine: Don't Let the Old Man In di Toby Keith, con la limpidità dell'arpeggio e la vocalità perentoria di un country in quanto semplice liricità degli spazi, sembra far fiorire lo scampolo di vita, i giorni che restano al vecchio coltivatore di orchidee, gettando luce retrospettivamente sulla densità delle cose cangianti, della passione, le mancanze; poi i tre personaggi superstiti di Glass ad occhi spalancati si prendono per mano consci di iniziare un viaggio in un cosmo di pura semantica, prima che parta la ridda d'archi di West Dylan Thordson.

Scorre la vita in forme diverse in queste magnifiche sequenze (tra metacinema e afflato narrativo), ma a partire da una vertigine che è frutto della stessa essenza di base, che è lacrima, avventura nello spazio (o nello spazio-tempo), nostalgia per l'avvenire. È a partire da qui che celebriamo Tsukamoto e i trent'anni del suo Tetsuo, poi Soderbergh, Martone e infine Shyamalan giunto ora a piena maturità, a modulare a perfezione la sua poetica tra umano e super-umano.

Tags: