Non si tratta di ubbidire al governo, tronfia sillabazione e nemesi degli aggregamenti komitivali, aperitivali, lo sballo per lo sballo stupido quand'è sera, i balli triviali nella fiera delle vanità sgranata nelle ciarle del locale, nel bistrot che vive nell'automatico tinnire dei calici, nell'allentamento delle mascelle oramai lascive, l'allettamento del gioco delle parti, delle maschere, bistrate, occhiute, catastrofiche; ma di acconsentire alla scienza, il sinodo di sapienti, cerusici che sobilla Conte; a quella ricerca (delle ragioni d'essere, che siano biologiche o filosofiche) che s'è eletta contro i fascismi, maschilismi, razzismi, insomma in nome di un cosiddetto bene comune.

Si tratta di reinventarsi nel chiuso delle stanze, dei muri, delle pareti, nei cui biancori risuona la solitudine atona del bambino che eravamo, alle prese con Verne, Dumas, Salgari: tornare a immaginare, pensare... come s'è immaginata una sezione sulla letteratura sudamericana una volta che Giovanni Festa è venuto a trovarmi, proprio mentre l'«empio mostro» strideva ferro, sudava ferraglia, fischio di partenza e noi rispondevamo Piglia; tornare a scovare motivi d'esistenza, sia pure accidentali, evanescenti, in pagine, immagini, note, anziché brancolare nelle città, nei luoghi come programma di vita (il giro per il giro, senza il gioco immaginifico), come zombie che non sanno che ruminare strada su strada; che se viaggio deve essere che sia occasionale (dell'ultimo mio viaggio, di Berlino non ricordo null'altro che il lampo vibrato da Undine, il lago di Bach, il ballo di vite in sogno), sorpresi da un'eco di vecchi muri e lastricati, la primavera improvvisamente apparsa. M'è fiorita dentro una volta che sono uscito a comprare bottiglie di kefir; s'è fatta malattia, ascesso, nuvolaglia che ha cominciato a vomitare atomi di bava celestiale...

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