L'editoriale di fine anno è facile da scrivere: a meno che non sia accaduto qualcosa di eclatante in ambito teorico - il che richiederebbe un'attenzione speciale, tutta una messa a fuoco sul visibile contemporaneo che però sarebbe evanescente se paragonato alla bieca flagranza della pubblicistica, dell'icasticità salviniane: ma soffermarmi su questo fenomeno sarebbe sadico da parte di un'indole malinconica, e soprattutto ripetitivo visto che lo ha fatto, latamente, Franco Berardi, "Bifo", con un libro molto bello, Futurabilità edito da «Nero», come già Realismo capitalista di Fisher- si tratta di riassumere l'anno appena trascorso, attraverso immagini, pagine, suoni resistenti.

È tempo che vado dicendo, ormai come un automa, che le immagini sono solo il pretesto del pullulare tuberoso di un grande testo eterogeneo, che detta il tempo e lo spazio di un esserci al di là della complessione, della biologia: quindi come convergenza di sensi, significati; e allora pagine, musiche, coreografie in accordo/disaccordo con le immagini, sono l'orizzonte entro cui ci muoviamo ormai da otto anni.

Tra i film, almeno Dogman e Lazzaro Felice, poi Nuestro tiempo e Zan: pervasi da quella pietas che era stata l'anno scorso del capolavoro di Paul Schrader, First Reformed e che dovrebbe essere il fulcro, vitale, grondante, del nuovo film di Grabiel Mascaro in uscita nel 2019: poi ci saranno Harmony Korine, Shyamalan, Weerasethakul, Tarantino, il Pinocchio di Garrone, ecc... Mascaro presentò qualche anno fa a Venezia Boi Neon, vincendo la categoria "Orizzonti": un inno alla vita terragna, assolata del Brasile, semplicemente erotica, essudata (ricordo la scena per antonomasia di quel festival: un amplesso tra il protagonista e una splendida creola incinta), che pare l'avvisaglia, in forma meno cerebrale, proprio dell'ultimo Reygadas.

Allo stesso principio, alla stessa "forma di vita" risponde Wasted Space degli Oscillation, in vinile giallo acido, tra spichedelia, kraut, space-rock che nelle sue dilatazioni elettroniche, al silicio sciolto, colante, si cristallizza in colonna sonora, in venature horror; poi Allways dei Cave, sempre ossessivi tra funk, jazz, space: ma ci sarebbero almeno 50 dischi di cui vorrei scrivere, se non fosse che mi manca il tempo o manco io a lui... Ad ogni modo i libri, lo scrigno frasale, ideale della letteratura: tra i saggi la ristampa di Germania segreta di Furio Jesi (per Nottetempo); Sulla danza (da Cronopio); Ovidio e la cultura europea di Francesco Ursini (ed. APES); riguardo i romanzi Lo spirito della fantascienza di Roberto Bolaño, il coacervo di innocenza e illusione giovanile, sessualità, amore per la letteratura, fino al torbido e struggente appendice del Manifesto messicano, le scorribande in moto, l'amore nei bagni pubblici.

Ma c'è una pagina che vale da sola tutto un anno. Giorgio Pinotti ha curato per Adelphi una nuova edizione del Pasticciaccio di Gadda, e ha ritrovato, tra archivi prima inaccessibili, una pagina databile all'inizio del 1948 (trascritta da Pinotti alle pagine 322-23), che sarebbe un finale alternativo al libro:

«Da strane lontananze della campagna, non identificate dal labirinto, né presagite dal dolore, una repentina cagione si offrì, di che le imagini del territorio fisico, del cielo a nubi, si rappresero modulatamente: come quando la speranza, o la disperazione, viene collocata nell'ignoto: forse vanirono e si tramutarono al credere in un'apparita di malia. Quel paese così venuto da prodigio o quella sconosciuta natura sembrava rapprendersi in una estensione mentale, non spaziale: un silenzio non più geologico ne costituiva il supporto, conferiva al sogno, o all'incanto, l'indeterminata immanenza delle cose eternamente perdute, e, per ciò solo, eternamente esistenti. [...]».

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