Quando arriva il momento del numero autunnale - dopo le scorribande estive nei festival: bellissimo Locarno, tra l'altro senza l'assillo delle prenotazioni; affannosa Venezia da cui sono tornato spossato mentalmente e frustrato a furia di prenotare per proiezioni che spesso risultavano disertate (sic.): urge di ripensare a questo meccanismo (magari tornando al passato); ne va della sopravvivenza della Mostra - mi prende la solita malinconia, nel presagio delle immancabili retoriche foglie a crepitare e a ingiallire il tardo pomeriggio tra i tetti, e delle castagne la domenica a pranzo dai parenti. Ecco, dopo le scorribande, al primo soffio di vento, un istinto al ripiegamento, alla dimensione domestica: come la volontà di un appassimento mentre la congerie di cose continua «a essere la stessa, stupefacente e tetra» (Huysmans).

E mi viene di fare bilanci, tra cui quello di questa rivista, dopo tutti questi anni. Mi chiedo a cosa serva, a chi serva. Mi rispondo che serve innanzitutto a noi, alla militanza di un manipolo di "credenti", che piaccia o no - al ricettacolo che è divenuta, di idee, visioni, anche antropologie, lingue diverse tra militanza a accademia: i collaboratori, gli studiosi sudamericani che ogni volta la arricchiscono di suoni, idiomi spagnoli; al laboratorio di scrittura che si è delineato, l'esercizio sempre tormentoso sul lessico, sulla sintassi applicato al cinema: scritture sul cinema, mai recensioni, mai il supponente, sterile linguisticamente e ideologicamente "bello" o "brutto" -; a un'idea di cinema e di scrittura "di sbieco", decentrata, centrifuga, il risaputo deleuziano rizoma, tubero che vegeta all'improvviso, come epifenomeno.

Mi viene in mente un brano "vegetativo" di Agamben, tratto da quella miniera di intuizioni e riflessioni che è Autoritratto nello studio: «le piante sono per me una forma di vita in ogni senso superiore alla nostra: vivono in un perpetuo sogno, nutrendosi di luce». Ecco, si continua, come forme vegetative, a nutrirsi di luce, quella che promana da uno schermo. E allora Conceicao e Wittmann a Locarno; Guadagnino, Lav Diaz, Abel Ferrara ecc. a Venezia e poi Godard, il suo addio al linguaggio (a cui dedicammo non ricordo più quanti articoli anni fa) che continua a risuonarmi in questo ennesimo autunno (incupito dalla svolta destrorsa italiana), come un inizio, un benvenuto al linguaggio, al miracolo stupefacente di mettersi ogni volta seduti a dimenticarsi di sé.

Una di queste piante in perpetuo sogno - forse era ancora un germoglio, un'accensione di giunchiglia - era Nicola Curzio che per tanti anni ha scritto su questa rivista, facendo parte del direttivo e animandone il dibattito, tanto acceso che a un tratto le nostre strade si sono divise. C'eravamo lasciati male io e Nicola, anzi, stavamo per lasciarci male: l'ultima cosa che mi scrisse fu «un giorno rideremo di tutto questo». Non ci si siamo più rivisti. Nicola è scomparso alla fine della scorsa primavera. Ma a volte mi chiedo, quando mi fermo a ripensare a lui e a tutte le persone che ho perso e trovato nel corso di questo rutilare d'anni, se non sia più presente di quanto non lo sia io o di quanto non lo siamo tutti, labili figure di questo poema onirico che chiamiamo vita e che in realtà non è che un eterno intervallo, un momento, di noi stessi, confusi tra essere e inesistenza. Forse, come dice Iago a Otello in Che cosa sono le nuvole? «noi siamo in un sogno dentro un sogno». 

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