«All’inizio i cambiamenti fisici erano lenti, poi hanno fatto balzi in avanti con sordi tonfi neri, ricadendo negli strati di tessuto molle, lavando via i tratti umani… Nel posto dove regna il buio assoluto la bocca e gli occhi sono un organo solo che balza in avanti per mordere con denti trasparenti.»

William S. Burroghs, Il pasto nudo

Qual è il confine ultimo del corpo? E soprattutto, esiste un confine ultimo del corpo? Tutto è limitato solo alla pelle, oltre la quale c’è tutto il resto? La mutazione, l’espansione, qualsiasi cosa per non costringere l’uomo alla condizione di mero involucro innervato e organico ma tentare, disperatamente, di uscire dalla gabbia, fino a raggiungere un oltre infinito. Il corpo è materia, viva, pulsante, e, in quanto tale, plasmabile e soggetta a trasformazione e adattamento, come in Tetsuo: The Iron Man, di Tsukamoto Shin'ya.

Il corpo si espande e contamina, ma al contempo, è contaminato dalla metropoli, dalle sue atmosfere rarefatte, dallo spazio che invade la carne. L’uomo, il suo corpo, la metropoli e il suo spazio, in una compenetrazione chiasmica, quasi per osmosi, i limiti decadono, si fanno nebbiosi e labili, evanescenze simbiotiche dissipano ogni costrizione: così il corpo dell’uomo è un organo metropolitano, il suo corpo è il corpo della città, in uno spazio unico senza demarcazione alcuna. Strade, vicoli, baracche fatiscenti e abbandonate, ferraglia, carne, macerata, violata e dilaniata. L’uomo e la città, in un bianco e nero netto, in una dicotomia di luce e ombra, raccontati da un montaggio frenetico, dai tagli feroci che annichiliscono una qualsiasi mappatura temporale e contribuiscono ad aumentare la sensazione di straniamento, ma anche la fluidità che scorre tra lo spazio e il corpo, in continuo dialogo, una dialettica tra esterno ed interno. Come diceva Perniola, in Il sex appeal dell’inorganico: «l’anima e il corpo si assomigliano troppo per costituire veramente un’opposizione»; macrocosmo e microcosmo scivolano l’uno sull’altro, piani paralleli che finiscono per intersecarsi, (con)fondendosi, dove il macrocosmo è sì la città, ma anche l’uomo, e il microcosmo è l’involucro-corpo e la sua anima.

Tokyo, l’animale platonico, la città in continua mutazione, sullo sfondo, ma protagonista a sua volta, cannibalizza le creature che la popolano e si fa organismo; si restringe sino a co-stringere nei suoi interni i suoi abitanti; come una matrioska, un corpo che rinchiude un altro corpo, le pareti sono membrane che soffocano la carne mentre il cervello tenta una via di uscita crescendo sino ad esplodere. Gli interni, dipinti da Tsukamoto, sono sempre più angusti e oppressivi, una gabbia, uno spazio invivibile, esattamente come quel corpo stanco, in disfacimento, che solo attraverso la mutazione può salvarsi.

Innesti inorganici, non più accessori, ma fusi nella carne, sino a divenirne parte indissolubile, estendendo il corpo in un oltre, dove la tecnologia espande la materialità organica. Così un tubo metallico viene inserito tra le carni lacerate e sanguinanti, è l’evoluzione umana verso il passo successivo, verso le macchine ballardiane, in un crash che è la matrice di una nuova era avvolta dal nichilismo e dalla solitudine. Davanti allo specchio un aculeo spunta sul viso, preme per venire fuori, esattamente come accade a Jeff Goldblum, nel cronenberghiano La mosca. La metamorfosi ovidiana, da uomo ad animale e, successivamente in macchina, ma anche in essere ibrido, la costante è il dolore, parte integrante del vivere odierno. L’uomo si ritrova nell’amplesso, una lotta in cui si muore per poter rinascere, come sostiene Burroughs, nella sua prefazione a La fiera delle atrocità, di Ballard «i terremoti possono essere originati da sconvolgimenti sismici all’interno della mente umana». La mdp è vicinissima al (s)oggetto attoriale, sembra quasi un suo arto, l’immagine è frenetica, ruota su se stessa, capovolta nel montaggio martellante, in sincro con il ritmo spasmodico della musica industrial, il tappeto sonoro di Chu Ishikawa è il contrappunto al passo uno, convulso e delirante, ne detta il tempo in un’astrazione sempre più materica che deraglia in una vertigine emozionale.

Il primo passo della mutazione nasce dall’amplesso, in cui si consuma la piccola morte. Come suggeriva Bataille, in L’erotismo, «dell’erotismo si può dire, innanzitutto, che esso è l’approvazione della vita fin dentro la morte» e ancora «la partecipante femminile dell’atto erotico appare come la vittima, il partecipante maschile come colui che compie il sacrificio». Eros e thanatos si confondono in un gesto estremo di nichilismo, l’uomo uccide l’oggetto amato, che, al contempo, è anche l’oggetto del desiderio, la sua prima vittima. L’atto sessuale è un atto, in primis, distruttivo, la donna è la vittima sacrificale di un maschilismo “meccanizzato”, il fallo-trivella compie il sacrificio, e si torna a Bataille. Le pulsioni sessuali permangono, nonostante la mutazione, volgendosi in pulsioni distruttive. Tsukamoto lavora sulle macerie di un mondo distrutto, ma anche sulla frantumazione dell’essere umano, maceria a sua volta, ormai frutto, sempre più, di una catastrofe.

Pulsante, martellante, troppo veloce per fermare l’abisso in cui si sta scivolando, fagocitati da una società che non lascia il tempo di respirare, priva di ossigeno e che restringe i margini del vivere, soffocando le proprie creature che, bulimicamente, finiscono per cannibalizzarsi. Uomo, macchina, carne, desiderio e distruzione, nella scomposizione della materia sacrificata, sbranata e addentata, la morte si trasforma in vita, ma ossimoricamente anche la vita si converte in morte. «Al culmine della disperazione, solo la passione dell’assurdo può rischiarare di una luce demoniaca il caos. Quando tutti gli ideali correnti - di ordine morale, estetico, religioso, sociale, ecc. - non sanno più imprimere alla vita una direzione né trovarvi una finalità, come salvarla ancora dal nulla? Vi si può riuscire solo aggrappandosi all’assurdo, all’inutilità assoluta, a qualcosa, cioè, che non ha alcuna consistenza, ma la cui finzione può creare un’illusione di vita»

Intervista a Cioran, di Arquès in Rigoni, 2004.

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