«Solo studiando i morti, si
progredisce nella conoscenza dei vivi.»

Nella serialità, dunque, sembra concentrarsi l’ultima frontiera del racconto cinematografico – ma basta fare i nomi di Steven Soderbergh, Edgar Reitz, David Lynch, e di pochi altri, per capire che c’è dell’altro. A ognuno il suo altro.  
Tra le serie TV di successo, The Knick è la sola (che io sappia) per la quale, dopo due stagioni, alla fine si è dovuto rinunciare alla terza. Il personaggio protagonista infatti (parlo del dottor John Thackery, primario chirurgo all’ospedale Knickerbocker di New York ai primi del '900) muore nell’ultima puntata della seconda stagione, operando se stesso in anestesia locale, e sarebbe stato difficile resuscitarlo, o contentarsi di seguire i casi degli altri personaggi (medici, pazienti, infermiere, amministratori …). La serie diretta da Soderbergh insomma, benché termini con la minaccia o l’annuncio di un'epidemia, assume man mano l'andamento d'un profilo biografico (ispirato alla figura reale del dottor William Stewart Halsstead), racconta la sua storia o vi si ispira, e ogni biografia, come si sa, termina prima o poi (se sufficientemente protratta) con la morte del suo protagonista.


Certo The Knick è anche la storia di un ospedale, e insieme un tentativo di risalire, se non all'archeologia, al momento decisivo (fine Ottocento – inizio Novecento) del trionfo di ciò che Foucault ha chiamato “nascita della clinica” , implicante la nascita dello “sguardo clinico”. È il momento, come qualcuno ha detto, in cui, grazie anche all’invenzione dei raggi X, il corpo del malato comincia a diventare “trasparente”: ma questa trasparenza è al servizio della chirurgia, del taglio, dell'incisione e dell'asportazione di organi. Sembrano ancora misteriose le cause di malattie come le tossicodipendenze, le psicosi, l'isteria ecc., in cui “non c’è nulla da asportare”, anche se incombe l’arrivo della terapia freudiana della parola, in qualche modo anticipata dalle intuizioni del dottor Edwards. 

Non solo: The Knick si può anche considerare la storia di una tossicodipendenza (quella di Thackery) e dei tentativi per liberarsene, la storia di un impossibile amore interrazziale (tra Cornelia e l’afroamericano dottor Edwards), la storia del sodalizio tra Tom Clary, incallito bestemmiatore, conduttore d'ambulanze, con una suora che pratica aborti, e perfino la storia di una città, del suo inarrestabile sviluppo, nonché delle miserie, dei crimini, delle diseguaglianze, dei pregiudizi razziali, di cui questo sviluppo si è nutrito (da questo punto di vista, si è tirato in ballo Gangs of New York di Scorsese). Credo però che questo sia soprattutto il resoconto della strenua lotta di alcuni uomini contro l’inevitabile, contro la malattia e la morte, ossia, per dirla con Artaud, contro ogni specie di giudizio di dio: il dottor Thackery lo dice chiaramente, scandalizzando i più timorati, quando pronuncia l’elogio funebre del collega Christensen, suicidatosi dopo i ripetuti fallimenti di un nuovo metodo di operare donne incinte, affette da placenta previa. Thachery stesso, per reggere il ritmo frenetico degli interventi da eseguire, è dipendente da oppio e morfina, che lo vediamo iniettarsi alle dita dei piedi dopo essersi tolto una scarpa. I piedi di Clive Owen, calzati da un paio di scarpe chiare, sono la prima cosa che vediamo di lui, sdraiato su un divano del bordello cinese, all’inizio della prima puntata. Per il resto, è convinto che solo studiando i morti sia possibile progredire nella conoscenza dei vivi. I morti o, in mancanza, i maiali.
Gli scenari di The Knick sono vari, come sempre in Soderbergh: ci sono gli esterni di alcune strade di New York, riportate all’aspetto 1900 anche tramite il ricorso alla tecnica del fuori-fuoco; ci sono carrozze e cavalli, ma già dall’inizio un cavallo morto per strada prefigura l’avvento delle prime automobili; c’è il porto, dove sbarcano le navi dei migranti e con essi, si teme, le malattie contagiose; c’è l’ospedale, dove medici competenti debbono lavorare accanto a finanziatori ipocriti e amministratori corrotti; c’è il bordello cinese; ci sono i salotti aristocratici e le stamberghe dei poveri - ma lo scenario privilegiato, che riassume il senso del film (ebbene si, lo chiamo film), è quello dell’anfiteatro anatomico, dove si eseguono operazioni a mani nude, prima alla luce di candele e lumi al cherosene, poi sotto la luce elettrica, alla presenza di una platea di altri medici, curiosi di vedere e, forse, di imparare. Le invenzioni di Edison cambiano tutte le modalità di visione, specie se si pensa che tra esse c’era anche il cinema, “piccola magia in una scatola”.
Nella sala operatoria di Soderbergh, sotto le scelte rigorose del suo sguardo, si dà luogo all’auspicio artaudiano di rifare l’anatomia dell'uomo, di togliergli gli organi («legatemi, se volete…») perché possa non morire o possa invece vivere veramente. È uno scenario da teatro, in cui coloro che operano illustrano al pubblico, nello stesso tempo, ciò che stanno facendo. Più esattamente, è un Teatro a due, in cui un attore, del tutto passivo, è alla mercé dell’altro, che si avvale di alcuni servi (o serve) di scena (nella sottomissione delle infermiere si legge anche il pregiudizio nei confronti delle donne): un Teatro della Crudeltà, non tanto e non solo per il sangue sparso, che sgorga inarrestabile dalle incisioni e dai tagli eseguiti sulla carne viva, quanto per l’inesorabile precisione con la quale il tutto è mostrato in dettaglio (e al tempo stesso senza compiacimenti).

La sala operatoria è un teatro del sangue e dell’orrore, ma qui è il cinema ad amplificarlo, concentrandovi spietatamente la visione. Il raccapriccio è nella visione non edulcorata dell’asportazione degli organi, dei cervelli scoperchiati, ossia della fragilità del Corpo senza Organi, che troppo spesso non riesce a rigenerarsi come Corpo Glorioso. Alla lunga, non vi riesce lo stesso Thacheray, quando opera se stesso e, spegnendosi, deve constatare amaramente «È tutto qui…»: tutto qui cosa? Sangue che esce, si perde, liquido rosso che lascia il corpo come un tempo si credeva lo lasciasse l’anima. La molteplicità delle storie raccontate in The Knick può essere riassunta in questo, nel sangue come segnale delle ossessioni per la malattia, la droga,  la pazzia e la morte, che ritroviamo del resto in parecchi dei film più significativi di Soderbergh: si pensi al documentario su Spalding Gray (Gray’s Anatomy), a Contagion, a Unsane, ma anche a Dietro i candelabri e perfino a una “commedia” come La truffa dei Logan. In Unsane, specialmente, le ossessioni che turbano Sawyer Valentini, giovane donna in carriera, e provocano i suoi disturbi comportamentali, a volte sembrano avere qualche aggancio con la realtà, a volte lasciano sospettare ricorrenti attacchi di paranoia.

In questi film, peraltro, la concretezza dei corpi, la loro flagranza e persistenza materica, restano maggiormente subordinate alle istanze narrative, fino al recentissimo High Flying Bird, in cui invece la narrazione, con le sue regole, non ha alcuna importanza, ma predomina una geometria astratta, fatta di luci fredde e spazi disumanizzanti – per quanto il tema del basket sia solo un modo per continuare il discorso sulla discriminazione razziale, senza passare (grazie alla tecnologia iPhone) attraverso le consuete mediazioni produttive.    
Bisogna che lo confessi, a questo punto: il Soderbergh che più mi interessa è quello che mette in scena la degradazione della mente e dell’anatomia umana. In The Knick si possono trovare parecchi riferimenti culturali, magari inconsci, per esempio a Lacan (si pensi alla sequenza dei nodi che Thacheray, prigioniero su una barca, deve intrecciare per fingere d’essere guarito); tuttavia, non riesco a vedere il film senza leggervi, in filigrana, soprattutto una quantità di riferimenti  ad Artaud, come fosse una trasposizione cinematografica dei principi che lo stesso Artaud, a un certo punto, non credeva più fossero realizzabili sullo schermo. Ma forse è solo un arbitrario automatismo psichico: ormai anatomia più carne più teatro del sangue, uguale Artaud o (nel caso presente) Soderbergh con Artaud.

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