Con Tsukamoto sembra che tutto si stemperi in una specie di strana dimensione, senza direzione né riferimenti immediati, senza nord né sud, senza un filo che conduca da un prima a un dopo se non passando per l’intermittenza del corso del tempo.

Ed è sempre la mente il teatro non fenomenico, sovrannaturale, di questo corso, concatenarsi spezzato e tremante, appunto, di eventi, sensazioni e ricordi: la macchina da presa segue così lo spazio-tempo contratto e dilatato filmando il reale sia esterno che interno dal didentro, facendoci insinuare in ogni vertigine, sbalzo e tempra del personaggio che di volta in volta costituisce questo punto di vista “privilegiato”, soffocandolo (e soffocandoci) come all’interno di una soggettiva illimitata, perpetua. In Nightmare detective questa prospettiva è diveniente e multipla, diversificandosi nelle visioni di tutte le vittime che si piegheranno al desiderio mortifero di Zero, la figura cibernetica, onirica e al contempo tangibile, che li accompagna nella furia omicida\suicida: loro demone interiore, materializzazione di un doppio e della volontà di non-esserci, un’identità quindi altra: la “videocosa che uccide”, stando alle parole di Enrico Ghezzi.

Il movimento è vibrante e il montaggio forsennato, tellurico. La realtà rappresentata mai univoca, sdoppiandosi come nelle allucinazioni di Kotoko, in cui nei massimi turbinii offuscanti e convulsi – come nei pedinamenti di Zero - l’immagine perde gradualmente la sua quadrimensionalità e tutto incede per una sintassi spezzata, fatta di linee e passaggi deformi, ad esempio quando Kotoko tenta in tutti i modi di respingere lo scrittore innamoratosi di lei o durante le sequenze degli omicidi che vede durante le sue violente crisi allicinatorie. Tsukamoto scandaglia le tortuosità della vista, intacca il suo statuto di certezza cognitiva, ne mette in immagine la polivalenza semantica rispetto all’osservazione del reale, giacché la contemplazione, l'atto primévo del vedere, e di conseguenza la conoscenza, devono in un certo modo aderire alla superficie delle cose per poi oltrepassarla, aspirando a ulteriori regimi di realtà: di parvenze diafane o informi agenti nell’inconscio traumatizzato e deviato di Nightmare detective, o di diramazioni del ricordo, della memoria perduta, che in Vital si riacquisita tramite un riflusso a ciò che faceva parte dell’io antecedente alla perdita: il ritorno del protagonista alla scuola di medicina, il contatto autoptico e dissezionante col corpo che ha amato quando la vita lo animava.



Kotoko è un film in cui il conflitto corpo-mente si fa carne viva e lacerata. A differenza del corpo la mente vuole spegnersi e Kotoko dice di esserne stupita, di provare meraviglia per la volontà che questo suo corpo sfibrato ha di vivere: il «bianco puro» epidermico della sua carne resiste a tal punto allo sfregiarsi continuo, alla ritualistica delle ferite autoinflitte e dei tagli, che la donna arriva in questo modo ad autorigenerarsi, ri-vitalizzandosi a partire dal dolore fisico, dal sangue colante, suo e di altri. Estroflettendosi oltre lo spazio delle proprie solitudini e manie, Kotoko troverà modo di oggettivarle ed esorcizzarle nella figura dello scrittore (Tsukamoto stesso). Un incontro che riuscirà quantomeno a trattenerla per un tempo breve, senza però poterle offrire quella definitiva salvazione che invece postula: autolesionismo e bisogno lesionista non compensano il vuoto e la costante fuga dalla sua personalità disgiunta. Lo stile di Tsukamoto si adatta con sorprendente duttilità alla restituzione di questa componente incorporea, eterea e psicologica, aprendosi a un lirismo squisitamente visivo e plastico per la resa di questa dissociazione per via tutta evocativa, percettiva, regalandoci il suo culmine di intensità espressiva e poetica nella danza catartica di Kotoko, non per caso consunta dalla pioggia e congiunta con la natura (anche in Vital c’è una simile transizione emotiva, balenante in quel caso nel contorcersi del corpo della donna in riva al mare): unico momento, insieme al canto, in cui la realtà davanti a sé è una sola, nel calore di un sogno ecosofico che - sebbene transitorio - è in quel momento materia pulsante.

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