Giacomo Debenedetti è stato uno degli intellettuali più acuti del Novecento italiano, primeggiando soprattutto nell’ambito della critica e della saggistica letteraria: ha attraversato tutta la prima parte del secolo, approdando infine alla stagione degli anni ’60 con un valore di risultati che, di fronte alla scandalosa sottovalutazione dell’Accademia, ha saputo produrre una lettura tra le più puntuali e appropriate della vicenda complessa del suo tempo. Il codice interpretativo dei grandi scrittori e poeti contemporanei a lui dovuto risulta forte – con eleganza e passione che restano integralmente letterarie – degli input derivati da una cultura anche esplicitamente extraletteraria, dalla psicanalisi alla filosofia, dalla politica alla storia, dalla sociologia all’antropologia, e così via. Il bacino di formazione di questo atteggiamento cognitivo – che comunque non ruppe mai con i fondamenti dell’estetica di Croce – fu senz’altro determinato dalla spinta modernistica del pensiero gobettiano (e gramsciano) negli anni ’20, e da quella delle riviste giovanili che si seppero ispirare alle idee della “rivoluzione liberale”. La molteplicità d’interessi per il coraggioso arricchimento dell’orizzonte culturale italiano si aprì così, in quella fase, ad ambiti fino ad allora inesplorati da parte della migliore intelligenza nazionale.

E ciò accadde con particolare evidenza, nel caso di Debenedetti, per l’arte cinematografica. Un fascicolo speciale di “Solaria”, dedicato a un’inchiesta sul cinema, contribuì intanto nel marzo 1927 a superare, per lui e per altri, il pregiudizio crociano che a lungo aveva escluso dal novero delle arti appunto il cinema. In esso, così, si distingue allora una limpida e succinta definizione della “settima arte” dovuta al giovane critico, che in tal modo dà avvio al suo lungo e costante rapporto col cinema di cui si occupa l’opportuna ripubblicazione, ampliata, di questo volume a cura di Orio Caldiron, Giacomo Debenedetti. Cinema: il destino di raccontare (La nave di Teseo, 2018): «Il cinematografo esprime, con i suoi mezzi e con la sua tecnica, dei sentimenti e degli affetti. È dunque un’arte; alla quale si potrà applicare l’estetica crociana, siccome ci ha ricordato, dalle pagine del Convegno, l’amico Antonello Gerbi» (“Cinematografo”, p. 56).

Perciò per Debenedetti raccontare il cinema resta gramscianamente (perché evidente attività intellettuale) un’operazione artistica, e, nello stesso tempo, anche opera del fare. E poi, il suo carattere peculiare come spettacolo popolare porta particolarmente le avanguardie progressiste ad incontrarsi quasi naturalmente con esso (cfr. p. 69, p. 107). Queste linee prospettiche ispirano allora costantemente tra il 1937 e il ‘38 l’attività di recensore di Debenedetti dalle pagine della rivista “Cinema” (rubrica “In questi giorni”), portando ad emergere temi (caratterizzati da sicuro spessore teorico e da fascinose intuizioni) come quello sulla forma cinematografica per effetto di un autore plurale e di un’attività collettiva, che a loro volta trovano applicazione, per il Nostro, soprattutto nell’apprezzamento dell’evoluzione del cinema americano. Nel rilevare il fondamentale rapporto, del resto, tra autore-attori (p. 113), Debenedetti punta sul lavoro e il ruolo non solo dei registi (Pabst, Lang, Siodmak, Cukor, ecc.), ma anche dei grandi interpreti (primo fra tutti, Charlie Chaplin, p. 59, p. 137) e delle più famose attrici dell’epoca (dalla Garbo a Katharine Hepburn, ma anche, in Italia, ad esempio, Francesca Bertini – p. 191) nel conformare l’impronta decisiva, per il film, come opera d’arte. Nel cinema, poi, come attività collettiva, dove tutti i mestieri che collaborano alla realizzazione del prodotto cinematografico puntano a liberare, modernizzandola, quella che per secoli era stata la solitudine dell’artista nel chiuso della sua coscienza e nella torre d’avorio dell’invenzione poetica, il critico individua – quasi in parallelo con filosofi come Benjamin – lo specifico collettivo che incontra l’assai ampia, sempre più crescente, partecipazione delle masse come il soggetto essenziale che nutre la magia e, al tempo stesso, concede vivo riscontro al messaggio. È per questo che Debenedetti vede appunto nella strepitosa macchina dell’arte cinematografica americana il fattore decisivo che conduce a una straordinaria mitologizzazione universale motivi, storie e personaggi, che alimentano felicemente la complessiva vicenda hollywoodiana.

D’altronde, il critico, soprattutto nel decennio dei Trenta, integra, grazie a questo esercizio teorico che si fa passione, il fare di cui sopra: con il contributo più diretto alla costruzione dell’opera filmica, per via del suo lavoro, abbastanza continuativo, presso importanti aziende italiane dell’epoca come la Cines (di Pittaluga), la Lux e l’Enic, tramite cui impara tra l’altro a valorizzare alcune intuizioni estetiche nient’affatto occasionali o di maniera, come, ad esempio, la funzionalità compositiva della luce nelle riprese, destinata a essere uno degli agenti essenziali del risultato espressivo di un’arte che restava prevalentemente visiva (p. 125, p. 129). Ma è nella realizzazione del doppiaggio, e poi, contemporaneamente, nella pratica della sceneggiatura, che Giacomo Debenedetti mette alla prova le sue doti più peculiari. Infatti, nel doppiaggio egli trova gli elementi ineludibili per dare universalità e opportuna traducibilità ai prodotti originali (p. 243, p. 249), al tempo stesso differenziandoli attraverso le cinematografie nazionali; e, nelle sceneggiature (p. 255), spesso firmate dopo le leggi razziali con pseudonimi per evitare il riconoscimento delle sue origini ebraiche da parte dell’occhiuta censura fascista, incontra i modi per praticare un terreno parallelo di coltura onde mettere a frutto le sue doti letterarie. A proposito peraltro delle sue prove di scrittura (l’altra faccia del “destino di raccontare” ispirato dal dichiarato, ininterrotto rapporto con Proust), e nel contempo dell’esperienza di intellettuale ebreo che andava vivendo, negli anni della guerra, come non pochi altri l’incubo della persecuzione, resta una testimonianza eccezionale il suo scritto sul drammatico rastrellamento razzista, a Roma, del 16 ottobre 1943 ad opera del terrore nazifascista. Del resto, l’impegno civile, che scaturirà dalla complessità di questi eventi, lo porterà nel dopoguerra a iscriversi al PCI (senza sposarne mai certi dogmatismi estetici), mentre continuerà ad occuparsi di giornalismo cinematografico attraverso i numerosi, significativi commenti curati per la Settimana Incom.

Contemporaneamente Debenedetti si afferma sempre più – anche attraverso l’insegnamento universitario e la ricerca, il cui punto più alto è raggiunto dal volume Il romanzo del Novecento – come il più importante critico letterario del suo tempo, senza che ciò significhi però abbandono dell’appassionato rapporto col cinema: tant’è che, emblematicamente, la sua carriera, prima della morte, si chiude con un grande saggio presentato alla Mostra di Venezia del 1965, Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo, scritto teorico di una finezza eccezionale (tra gli altri, Pasolini ne fu particolarmente colpito), che mette insieme e lascia quasi a testamento le sue capacità più notevoli di studioso di letteratura, cineasta e scrittore, e d’intellettuale militante, autentico maestro di intere generazioni. 

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