«[…] αὐτόματα δ᾽ αὐταῖς δεσμὰ διελύθη ποδῶν
κλῇδές τ᾽ ἀνῆκαν θύρετρ᾽ ἄνευ θνητῆς χερός […]»
(Euripide, Baccanti)
«[…] Le catene, da sole, si sono sciolte dai loro piedi
e le chiavi hanno dischiuso le porte senza una mano mortale […]».
(Trad. di L. Correale)

L’incedere del pensiero tragico, la spinta contraddittoria, multiforme, estrema verso la conoscenza in atto, che si compie a ridosso di quella montagna – stratificandosi come gli strati delle rocce calpestate, inquadrate in particolari vivissimi, dettagliati, minuti – poi sale in vetta e da lì precipita, è costitutivo di quest’ultima opera di Mario Martone, il cui sguardo si intreccia alle puntuali citazioni euripidee come a partire da lì, da quel «[…] ἴτε βάκχαι, ἴτε βάκχαι […] εἰς ὄρος εἰς ὄρος […]»(«andate Baccanti, andate Baccanti […] al monte, al monte […]», anaforicamente evidenziato anche in diversi momenti di Capri Revolution, in cui si dispiega la forza del mutamento come tragica, ineluttabile necessità: un andare che si manifesta già dal volto in primo piano della protagonista, dagli occhi sulle pietre ruvide, che è avvio alla danza conoscitiva che toglie il velo alle cose; e dal piede, che sale alle rocce, all’urlo dei gabbiani, poi al precipizio aperto dalle panoramiche mozzafiato, che spostano il movimento, mutano nella discesa dello sguardo questa tensione continua del salire, del guardare in alto ed avanti, precipitandola alla quiete del mare, ai corpi, nudi sulle pietre, pietre su pietre, confusi, fusi nella luce azzurra, estatica, dentro gli strapiombi, che non sappiamo se siano di Capri o degli occhi: vortici, neri, di Lucia.

La progressione visiva, la cui idea è pienamente espressa nella didascalia a incipit del film («Quest’isola compare e scompare continuamente alla vista e sempre diverso è il profilo che ciascuno ne coglie. In questo mondo troppo conosciuto è l’unico luogo ancora vergine e che ci attende sempre, ma solo per sfuggirci di nuovo») fonda l’origine del mutamento, lo smascheramento dionisiaco di una Marianna Fontana che sveste i panni di Tiresia per quelli di una moderna menade pronta ad aprirsi al contraddittorio delle possibilità, su quel campo fermo di Lucia al centro dell’inquadratura, il volto fisso proteso in avanti, in alto, brucare di capre, alle quali si rivolge impulsivamente con un «Ià!», battendo il bastone, che è con-temporaneamente rompere la rigidità dell’inquadratura, andare, cambiare: «εἰς ὄρος εἰς ὄρος».

Con lei, davanti a lei, una diroccata città che sale, labirintica, calviniana. Il gesto di togliersi il fazzoletto dal capo, quell’amaranto che scivola dalla nuca e sembra sanguinare, è il secondo momento attraverso il quale si attua la rivoluzione. Gli occhi della pastorella, il cui nome ha in sé la luce, iniziano a vedere, e si poggiano là, su quel panorama che si muove piano e che sembra risucchiare quelle pupille, quel volto, quelle membra denudate voracemente dentro il quadro: figure lontane, lente, i bambini che giocano sui gradini di pietra, ancora profili stesi al mattino, pelle capelli ciglia abbandonati a respirare la grazia, l’ambiguità del sole, sotto il quale la ragazza si spoglia frenetica, si stende, imitando quei gesti che non comprende. Diagonali, geometria di linee da un angolo all’altro del campo: a tagliare l’occhio, rompendo la vista, il suo corpo parallelo al disegno tracciato dalle capre, il ricordo di questi sulla retina dello spettatore mima il profilo discendente, angolare della collina, del tetto del casolare.

I telai sono spezzati. «[…] Βρόμιος ὅστις ἄγῃ θιάσους – / εἰς ὄρος εἰς ὄρος, ἔνθα μένει / θηλυγενὴς ὄχλος / ἀφ᾽ ἱστῶν παρὰ κερκίδων τ᾽ / οἰστρηθεὶς Διονύσῳ […]» («[…] Bromio è colui che i tiasi conduce – / al monte al monte, dove attende / uno stuolo di femmine / da spole e telai sospinte via / dal pungolo di Dioniso […]»1Euripide. Baccanti, Introduzione di Franco Rella, Traduzione a cura di Laura Correale, Milano, Feltrinelli, 1993, p. 60, vv. 115-119.: a scardinare l’impianto tradizionale delle convenzioni, la rigidità della macchina misogina del tempo, dei ruoli, dell’estromissione dalla cultura delle «femmine» ai telai, sta tutta l’attualità del contrasto tipico della tragedia, che in Euripide soprattutto è espressione di un’età della crisi, quella della fine del V secolo, in cui la città «[…] è lacerata, e sembra non vi possa più essere posto in essa per un sapere che ne mette in discussione i confini, i limiti, le istituzioni […]»2 Ivi, p. 18.; pluralità, compresenza di elementi – coincidenti negli opposti – che il regista di Capri Revolution fa sue, negando la risoluzione dei conflitti in un’unica verità o ragione, temporalmente trasportate nel periodo immediatamente precedente il primo conflitto mondiale. Cosicché Lucia, baccante che accoglie le contraddizioni delle possibilità, il differente (l’altro da sé e l’altro in sé), diventa il bersaglio contro cui si scaglia l’anatema dei fratelli, che raccoglie la visione dell’isola, ravvisabile nelle parole di Penteo: «[…] γυναῖκας ἡμῖν δώματ᾽ ἐκλελοιπέναι / πλασταῖσι βακχείαισιν, ἐν δὲ δασκίοις / ὄρεσι θοάζειν, τὸν νεωστὶ δαίμονα / Διόνυσον, ὅστις ἔστι […] / ἄλλην δ᾽ ἄλλοσ᾽ εἰς ἐρημίαν / πτώσσουσαν εὐναῖς ἀρσένων ὑπηρετεῖν […]» («[…] le nostre donne hanno abbandonato le case fingendo baccanali e scorrazzano tra i monti boscosi per onorare con danze un nuovo dio, Dioniso, chiunque sia […]una di qua una di là, rintanate in luoghi solitari, servono i letti dei maschi […]»)3Ivi, p. 66, vv. 217-223..

Lo straniero, il pittore Seybu-Dioniso-Diefenbach, incarna la dimensione opposta a quella del medico del paese, entrambi mossi, in modo differente, dallo spirito rivoluzionario e dalla passione, identificando i poli estremi di un conflitto perturbante, al centro del quale si innesta l’individualità diveniente della protagonista, attratta da entrambi, scissa, col suo (personale ma pure sintomatico di uno sfaccettato, poliedrico, onnivoro modo d’essere che è naturalmente al fondo dell’esistente) desiderio di sapere, di conoscere, assecondando il bisogno di libertà. Il doppio, che è anche rinascita, venire alla luce – e la luce implica qualcosa che ha a che fare col visibile – è creazione, momento che genera realtà, partendo dalla percezione della possibilità; come Dioniso rinato dalla coscia di Zeus, Lucia rinasce dalla voglia di venire fuori, uscire dalla prigione fisica e culturale del microcosmo cui appartiene, e lo fa facendosi trascinare dalla potenza ditirambica della nuova, più umana, prospettiva attuata dalla comune fra i massi di quella terra vergine, tra i fuochi accesi nei boschi, o emersa dall’acqua, in ralenti, sfocata, braccia che si intrecciano sullo specchio liquido, corpo che si piega, e vola, sorvola l’isola ad occhi chiusi, e sorride.

Ha accolto, uscendo fuori da sé, l’altro in sé: «[…] Ἴθι, Διθύραμβ᾽, ἐμὰν ἄρ- / σενα τάνδε βᾶθι νηδύν•[…]» ([…] Su, Ditirambo, entra nel mio grembo virile […]»)4Ivi, p. 86, vv. 526-527.: l’antico canto corale in onore del dio ritorna, eternamente ritorna, ritmando nelle movenze sincopate degli attori sul palcoscenico della natura, o sulle note del piano come colpi sopra la terra, l’emersione di dinamiche nuove. Mentre il cambiamento avviene, la guerra induce ancora a mutare la rotta, ingoiando, muta, i maschi giovani dell’isola, come fiume scesi verso le sponde. Allora assistiamo all’epilogo di quello che sta per essere il terzo, ultimo sguardo di Lucia, che Mario Martone segue in discesa accorata in direzione della barca, del mare: la macchina indugia sui passi, uno dopo l’altro veloci, ansimanti, rappresi nell’urgenza di un segno che fermi la corsa. Gli occhi furenti di un incisivo Gianluca Di Gennaro muovono i fili di questo destino che si compie, e muta ancora gli occhi di quella sorella che prende in sé ogni contraddizione e la tramuta in parola, in azione.

È l’ultima rivoluzione dello sguardo, preparata da quelle scene che seguono – in discesa, questa volta – il fluire dei piedi, di quella corsa giù dal monte; confluita nel primo piano del medico (Antonio Folletto), nel suo «Prendono il sole!», rivolto a Lucia, che assume ancora una volta nel dinamismo del pensiero la potenza generativa, creativa del farsi dell’azione, opponendo a quelle particolari visioni del pittore e dei suoi proseliti, che fino a quel momento ha accolto e interpretato, una personalissima visione con la quale ancora ad essere messa in gioco è la problematicità, la multiforme contraddittorietà dell’esperienza esistenziale, che scalfisce le certezze, che desta dal sonno: quel sonno che Euripide intende come cura del dolore(«ὕπνον τε λήθην τῶν καθ᾽ ἡμέραν κακῶν», «il sonno, oblio dei mali di ogni giorno»5Ivi, p. 70, v. 282.) e che il regista rende manifesto in alcune delle scene conclusive del film, attraverso gli occhi appunto, ma inorriditi, della protagonista.


Che vedono attori, profili meccanici in danza, finzione, mentre la terra trema e le anfore cadono, perso l’equilibrio, dai rami.


«[…] εἴδετε λάινα κίοσιν ἔμβολα / διάδρομα τάδε; Βρόμιος <ὅδ᾽> ἀλα- / λάζεται στέγας ἔσω […]»: «[…] Avete visto queste travi di marmo / sulle colonne? / Ondeggiano. Ecco, Bromio grida / dentro il palazzo […]»6Ivi, p. 90, vv. 591-592.. È la vertigine del crollo ma prima, probabilmente, di costruire, di esistere, di nuovo.






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