A partire da una ricognizione della nodatura fitta di coerenze interne e ritorni non casuali che lega ciascuna delle opere di Tsukamoto alle altre, ma limitando il campo d'analisi alla sola indagine tematica e valoriale, cerchiamo di capire meglio le ragioni di continuità con cui Zan (The Killing) ultima sua creatura che ha corso al Lido, si attesta come opera matura di quella "nuova onda" del suo cinema, in cui sono l'interrogazione etica di ampio respiro e l'attenzione agli universi interiori, psicologici e morali dell'uomo a muovere la ricerca della macchina da presa.

Dopo l’abbuffata bodista e trasformativa del primo periodo, in cui il corpo era spettacolarizzato nelle sue espansioni e potenziali ibridazioni materiche come tramite di un discorso critico sull'alienazione metropolitana, un primo spiraglio della Nouvelle Vague tsukamotiana si era respirato già con A Snake of June. Nell'erotizzante monocromia blu di questo film Tsukamoto già  stemperava il tema del rapporto individuo\environment metropolitano in un ripiegamento poetico sulla dimensione dell’interiore, della narrazione psicologica ed emotiva, nella messa a nudo e in immagine, dell’universo intimo della protagonista, Rinko (Asuka Kurosawa), per quanto ancora mettendolo in scena nelle coazioni e reazioni, spinte e controspinte a cui l'appartenenza megalopolitana la sottoponeva. Dal corpo all'anima, sembra questo il tragitto che il cinema di Tsukamoto intenda percorrere. Per la stretta e fisiologica relazione di senso che nel suo cinema lega contenuto e forma Tsukamoto, ovviamente, convoglia entro questo processo evolutivo anche quel repertorio stilistico iper cinetico e percettivamente debordante che lo aveva reso riconosciblie nel mondo, lo Tsukamoto's touch. Via via il ventaglio delle sue soluzioni stilistiche si apre a forme più sensibili e adatte all'espressione di questi contenuti volatili e sfumati.

Le immagini si irrorano di una evocavità poetica tutta emotiva, o erotica, a seconda dei casi, come la vibratile sensibilità cromatica di questo film ben dimostra. Una deriva intimista e psicologica, certo interessata alle condizioni liminali e patologiche, che ancor più rimarca la propria incidenza quando riemerge dopo la parentesi ludica dei due Nightmare Detective, per intaccare, rugginosamente, la poetica metallico-mutante dell’ultimo dei film dedicati al mitico Tetsuo, The Bullet Man, che ancora si impernia sulla suggestione Cronenberghiana del corpo-arma, come i precedenti, ma che, al contempo, si impronta ad una riflessione sul concetto di genitorialità e sulle scelte etiche legate alla famiglia, sul cosa siamo disposti a fare per difendere o vendicare i nostri congiunti. Uno spostamento dell'asse del discorso che ormai investe in pieno il piano delle scelte morali e dell'etica agentiva del personaggio. È Kotoko l’opera di definitiva stabilizzazione di queste componenti intimiste. Come già era avvenuto per Rinko, in A Snake of June, è il tema della maternità, innanzitutto, a mutuare, con le mille ansie ed espansioni d'affettività che reca, l'assunzione d'una prospettiva di sguardo sull'interiore della protagonista. La prospettiva si inverete, però, e se la patologia per Rinko proviene dalla sua impossibilità a generare, dall'incapacità di creare altra vita di cui è affetto il suo corpo malato, quella di Kotoko è un'ossessione di protettività, unita a un'ansia da prestazione, che scaturiscono proprio dall'aver inverato quella naturale possibilità del femminile, dal doverne accudire e difendere il frutto vivente, suo figlio.

Il punto di osservazione sul mondo è definitivamente traslato all'“interno” del personaggio, e il reale fenomenico ci è restituito tutto attraverso la personalissima e deformante lente dello sguardo patologico della indimenticabile Kotoko, in una sorta di "soggettiva psicologica" continua. Da un lato prosegue l’interrogazione sull’identità, che nelle opere del primo periodo era indagata sotto il profilo delle sue specificità ontologiche nel tentativo di individuare il quid differenziale che dovrebbe renderci così diversi da una macchina, “la vita” che in Vital si cercava scavando dentro il corpo. Con Kotoko questa identità viene interrogata dal punto di vista di altre sue qualità identificative. È una o molteplice? Chi siamo? Quell’uno che mostriamo al mondo o la molteplicità di quei molti noi che continuamente scotomizziamo nell’interazione sociale? Lo sguardo duale di Kotoko, che disvela entrambe le metà di ciascun corpo e identità, la buona e la malvagia, permette a Tsukamoto di introiettare nel suo discorso un’opzione “etica“ in senso lato: la possibilità del bene e del male, che qui si intendono inscindibili e costitutivamente presenti nella natura umana. Sottolineo questo elemento della ricaduta etica, della possibilità non recondita dell’emersione del male latente, perché è quello che con più forza ritorna nel film successivo, Nobi, fires on the plain. Cosa accade quando è la "metà cattiva" delle persone, non più tenuta a freno dai paletti di una morale improntata al rispetto della vita, a prendere irrimediabilemente il sopravvento? L’interrogativo identitario, che pure è alla base del film, qui già cambia di segno. Non è più il quid differenziale sul piano dell'ontologia a interessare Tsukamoto, ciò che ci fa essere esseri umani e non pietre, o apparati meccanici, per esempio, come nei film più datati, e la domanda si declina secondo l'accezione etica. Dunque non “esseri umani” nel senso di “esseri appartenenti al genere umano”, ma “umani” in quanto “dotati di umanità”.

Che cosa ci rende ancora “persone” si chiede Tsukamoto, che cosa ci impedisce di diventare come i mostruosi soldati-cannibali che infestano le boscaglie di questo film, moniti di carne viva del "dis-umanamento", nella misura in cui di umano non hanno più nulla sotto il profilo delle credenze morali e dell'etica dei comportamenti?  Per il regista è “il senso della vita” a fare la differenza, il non perdere di vista l'immenso suo valore, il rispettare il tabù assoluto e transtorico che riguarda la possibilità dell'uomo di offenderla, o addirittura di spegnerla. Quando il senso della vita si perde, ogni confine morale salta e i corpi, non più protetti dal rispetto di quell'anelito vitale che recano, diventano solamente “carne”, dissacrata e violabile, misurabile in chili, buona anche da mangiare, all'occorrenza. Tutto è lecito. La transizione tra una dimensione "corporea" del cinema di Tsukamoto a quella squisitamente "immateriale", della ricognizione psicologica ed etica si sta compiendo davanti ai nostri occhi.

Che possa esistere un collegamento diretto tra questo film, che si interroga sul senso della vita e uno che si intitola “Uccidere”, a questo punto del discorso, sembra più che un'ipotesi. «A che cazzo serve? Che senso ha?» Tsuzuki (Sousuke Ikematsu), il giovane samurai senza padrone, protagonista di Zan, così si interroga di fronte alla possibilità di dover uccidere un uomo. L'attinenza stretta con Nobi è tutta racchiusa in questa domanda sul "senso di uccidere", che in un certo senso è quella complementare, l'altra faccia, di quella sul valore della vita che rieccheggiava in Nobi. Quella che pone Zan è la «La domanda mancante in Nobi» abbiamo convenuto con Tsukamoto durante un fugace incontro veneziano, la fondamentale domanda che quei soldati hanno smesso di porsi da tempo e che invece, è questo il tema di fondo del nuovo film, ancora ossessiona il giovane Tsuzuki. L'incapacità di uccidere che lo affligge, il fatto di non trovare un senso accettabile nel togliere la vita, è l'ultima, sparuta forma di rispetto sacro per essa, il quid che differenzia questo ronin (samurai senza onore e padrone) talentuoso e innocuo tanto da Sawamura (Tsukamoto), mite in apparenza ma dominato da un senso profondo per la morte e la violenza che lo porta a uccidere "perchè va fatto" e senza interrogarsi sul senso, quanto dai soldati cannibali di Nobi, che né sul significato della vita né su quello della morte ormai si pongono più domanda alcuna.

L'universo morale entro cui si muovono i personaggi di Zan, dunque, si colloca un passo addietro rispetto a quello del film che lo ha preceduto, in quella fase di limite in cui ancora, per qualcuno, ha senso porsi la domanda. E fintanto che la domanda esiste, esiste anche la possibilità di una diversa risposta, un'alternativa possibile allo sfacelo morale di Nobi. La situazione in Zan potrebbe essere salvata perché ancora c'è chi, non avendo smarrito quel senso sacrale della vita che ci rende esseri “umani”, si pone l'interrogativo sul senso etico (non anche morale) dell'annientarla. Ma questa possibilità esiste veramente? Tsukamoto sembra pessimista a riguardo, il finale chiude sulla tenebra e su un urlo straziante d'orrore della candida Yu, mentre Tsuzuki ormai vaga inebetito tra il frondame, imbrattato di sangue e lacero per la lotta, delirante per l'omicidio appena commesso e non diverso, a questo punto, tanto nella figura che nella consistenza etica, dai soldati mangiatori di corpi umani del film precedente. Il male latente nell'umana natura, quella metà malvagia che Kotoko vedeva in forma antropomorfa, e che l'ibridazione con la macchina aveva liberato nel mite protagonista di Tetsuo The Iron Man, si riaffaccia con prepotenza e prende possesso della persona. Nel momento stesso in cui Sawamura gli ha insegnato a profanare la sacralità della vita (a costo di donare la propria) per il protagonista si apre il cammino senza ritorni che porta direttamente a Nobi, alla sua abiezione morale e alla sua etica cannibalica. Perso il senso sacro della vita Tsuzuki non trova comunque risposta alla sua domanda sul senso dell'uccidere. Sawamura non può insegnarglielo, infatti, poiché l'unico senso dell'uccidere è l'azione bruta dell'uccisione, lo scintillio della lama, l'infiorescenza rubina in espansione del sangue che esplode. La Novelle Vague di Tsukamoto è cosa compiuta.

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