Autorevole scrittore di realtà umane, nonché potente fotografo delle condizioni trasformative che coinvolgono in modo equivalente arte, natura, storia e forme di vita, Mario Martone tesse un’altra delle sue tele dipinte di luci e calore umano rivoluzionario, sospesa tra la terra e il mare. Un’ultima opera che reca già nel titolo – Capri-Revolution – il senso di una sollevazione e di un desiderio ardente di cambiamento, intrisa della fermezza di puro fatto politico amalgamato allo spessore poetico essenziale dell’immagine filmica.

Siamo a Capri, nell’Italia d’inizio secolo che si accinge a entrare in guerra; da quella ginestra alle pendici del Vesuvio che aveva ispirato il testamento spirituale leopardiano, talmente critico nei confronti del suo secolo e soggiogato dalle stelle del firmamento, Martone ci ripiomba nuovamente nel cuore caldo della natura campana, laddove pone il seme della vita in mutamento. È la terra stessa, con le sue rocce sprofondate nel mare celeste, la vegetazione e il cielo, a costituire l’intreccio di diagonali tra le quali si muove il corpo della capraia Lucia (Marianna Fontana), colei che porterà in grembo la rivoluzione. Il corpo – che era stato imbalsamato con il Leopardi favoloso – viene qui liberato in un’esplorazione ondulatoria sul campo, attraverso questa giovane e impavida donna ereditiera di un’antica tradizione di patriarcato, alla quale sfugge energicamente in favore di un approccio creativo alla vita che la riconduce al mondo e alla natura nuda.

La prima rivoluzione sull’isola di Capri è, dunque, quella che passa per il corpo: durante alcune delle sue promenades al pascolo con le capre, Lucia scorge dall’altro lato delle montagne un nuovo modo di vivere il corpo e la materia; osserva con sguardo affascinato come uomo, arte e natura possano entrare in contatto senza frapporsi limitazioni sociali, aprendo lo spirito a un inedito confronto tra esseri e costruendo reti di pure relazioni. La capraia sceglie per sé, allora, la strada del denudamento, primo autentico passo verso una personale rivoluzione e un rigenerato ritorno al mondo, avviato innanzitutto al ritmo delle danze pulsionali consumate nel bosco insieme ai membri della comune.

L’accesso di Lucia nel mondo dell’artista nordeuropeo Seybu (Reinout Scholten van Aschat) rappresenta il superamento di un limite di forma, già di per sé incarnato dall’isola come territorio geografico “separato” dal resto del mondo: la casa buia e portatrice di malattia (la figura decadente del padre) della ragazza viene abbandonata in favore di ampi spazi esposti ai raggi solari; alle figure retrograde dei fratelli maschilisti si oppongono i giovani e liberi corpi chiari dei membri della comune, nobilitati dai propri talenti artistici e dall’amore per la natura; dal giornaliero impegno del pascolo tra le montagne, isolata con le sue capre, Lucia passa alla sperimentazione di forme collettive d’arte e di danza, mettendosi in confronto diretto di idee, lingue e conoscenze con i membri della comune; infine, da un primo contatto con il medico (Antonio Folletto), nutrito di ambizioni interventiste e progressiste, la giovane si apre all’incontro con le utopie del pittore, punto d’origine di una nuova pratica d’essere. Si aprono, dunque, gli spazi, si inventano nuovi modi di stare al mondo insieme, si libera la primordialità del corpo e, al contempo, ci si pone il problema essenziale di come manifestare il senso profondo della vita in arte.

Nel frattempo la forma del film – che in Lucia trova un ideale punto di appoggio, ma sempre e necessariamente da oltrepassare – evolve, sfondando lo spazio-tempo mitologico dell’isola di Capri e riconducendoci in una dimensione mistica, uterina perché appartenente alla Madre Terra. Il radicamento storico della situazione è quello che prende a prestito la nota comune fondata sull’isola a inizio Novecento dall’utopista Karl Diefenbach e, nello stesso tempo, guarda all’opera posteriore – di condivisione e apertura – avviata da Joseph Beuys. Si tratta allora, su questa scia, di pensare al fatto artistico come gesto primariamente politico e umano – l’uomo è la sua rivoluzione –, che fruga nella materia sinergica fatta d’arte e vita mirando alla costituzione di un punto di (ri)partenza.

Martone esplicita questa intenzione navigando con il suo testo filmico da un tempo a un altro, oscillando tra passati molteplici e presente: dalle storie individuali che si intrecciano sull’isola al destino già scritto della Storia universale (l’imminente partenza per il fronte da parte degli uomini del paese); il lascito del secolo precedente, dalle giovani spinte rivoluzionarie dell’appassionato Noi credevamo (2010) allo spirito vitale contenuto ne Il giovane favoloso (2014), il tutto chiamato qui a raccolta per un’imprevista trilogia sull’Italia e i suoi ideali traditi. Imprescindibile resta, poi, la riflessione che si abbatte sul presente, a partire da un finale che sigilla il film come eruzione lavica di incandescente verità: la terra dell’isola trema al ritmo della guerra che è lì da venire, accolta dall’urlo straziante dell’artista che la vede arrivare prima d’altri, con tutti i suoi oscuri presagi (il malessere che colpisce Lucia nel cuore della notte, il sangue, l’oscurità che inghiotte l’immagine).

Quel sogno artistico di ribellione e rinascita che aveva schiuso come un fiore la bella capraia e una parte dell’isola stessa, finisce per prendere il largo su una grande nave diretta oltreoceano, lasciando Capri e il Paese tutto nella morsa di un incombente bagno di sangue. Un’inquadratura finale – Lucia imbarcata da sola verso l’America, osservata di spalle – azzera il film di Martone sprofondandolo nell’ombra del presente, laddove finiscono le utopie: il mare cristallino che circondava l’isola è ora un luogo ignoto da attraversare insieme ad altri sconosciuti sperando nella sopravvivenza, viaggiando nel tempo, parlandoci di allora e di oggi. Quando l’opera d’arte – ed è il caso di questo esemplare Martone – sposa il senso urgente dell’attuale, usa il tempo filmico e lo trasforma dall’interno, incontra con le immagini il mondo vissuto realmente, ecco che quell’opera è un gesto politico vero, di senso rivoluzionario.

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