«Quando la visione tende a non distinguersi più dal visto o dal visibile, è come se l’occhio toccasse la cosa stessa.»

Jacques Derrida Toccare, Jean-Luc Nancy

Nel buio della moviola al Centro Sperimentale di Cinematografia, tanti anni fa, ricordo una montatrice mitica, Jolanda Benvenuti, le sue mani che passavano e ripassavano la pellicola erano coperte da guanti. Quelle mani avevano toccato i fotogrammi di Roma città aperta, di Paisà, di Europa 51. Quelle mani guantate paradossalmente trasmettevano un contagio, il contagio delle immagini. Contagio che fa assonanza con montaggio. Il montaggio trasmette e risale. Per contatto. E con-tagio deriva da tangere, toccare, con-tactus.

Il cinema è un fatto tattile, continua ad esserlo nonostante l’ impalpabilità del digitale. Soderbergh, fin da Sesso, Bugie e Videotape lavora sulla trasmissione-contatto-contagio delle immagini, e sul lato rovesciato e invisibile cui le immagini si destinano proprio nel punto in cui si dissipa la loro consistenza materiale. Come se il pellicolare (ciò che ha a che fare con la pelle delle immagini, con l’epidermide e i suoi intangibili e invisibili effluvi e contagi) si insinuasse nel punctum fotografico ridotto all’immateriale (da qui il suo interesse per i passaggi dalla pellicola all’elettronica al digitale, e che verte non sul supporto, ma sulla potenza compressa e deflagrata in un lampo velocissimo di immateriale contatto, una sorta di scossa). I suoi primi film li ha montati da solo, ed è ritornato a montare le sue immagini con gli ultimi tre film.

Il suo è un cinema reticolare, laddove è proprio l’interporsi delle immagini, il loro automanipolarsi, la loro vita per contatto, e, lungo questa linea, il disegno di una loro risalita, a un ritmo che al contempo scuote e seda, freme e si distende, riscalda e raffredda, ri-vela e nasconde, dis-simula e decostruisce, a costituire una cifra che, sottoposta allo sguardo, diventa ganglio vitale. Come se (al pari del racconto jamesiano La cifra nel tappeto) il suo essere autore dipanasse (nell’intricarsi dei suoi disegni visivi) un segreto spaziale (come in Delitti e segreti), una foresta di segni (come nel Che), una collateralità mediale (come in Effetti collaterali ). Allo stesso tempo questa dissimulazione della cifra indaga e si inoltra nei reticoli e nelle obliquità perturbanti di spazi paralleli, che si comprimono nel concentrazionario ( una certa sua predilezione per gli spazi “d’asilo”, per le cliniche e gli ospedali, le camere-diaframma chiuse-aperte, sottoposte a sorveglianza o lasciate in balìa dell’emettere e incamerare immagini) e si espandono (come quella cifra-ganglio invisibile e intrecciata che, nel disegno, imprime una vita, prende a pulsare e a vivere quale immagine a un tempo organica e inorganica) nell’apertura di luoghi, di spazi lontani eppure metonimici, che subito si richiudono su se stessi, nel perimetro impossibile dell’inquadratura. Il suo cinema si riconfigura al suo interno, e verso l’esterno, come una anatomia schizoide. I suoi film non cessano di ripartirsi per schisi e di squarciarsi per contatto e per disseminazione del controllo, forza di inerzia delle immagini, spinta visuale. Di tutto ciò un film come Contagion ci appare quasi come un assunto teorico, appunto ripartito come un corpo di immagini che si ripercuote “a partire” da un tempo binario. Bisogna risalire all’immagine- primo giorno per dipanare e insieme dissipare l’espandersi del contagio. Per questo si parte da una “immagine seconda”, dal “secondo giorno” (e il procedere dei “giorni” distruttivi-creativi ha un che di biblico, di “genesiaco”). Evidentemente bisogna compiere una risalita delle immagini, ed esplorarne la trasmissione, entrare e uscire da esse, fermarle e rimetterle in moto, per enuclearne la potenza virale.

In questo senso il film è de-costruito da un intersecarsi di scene che non riposano su se stesse, non costituiscono sequenza, ma combaciano con altrettanti luoghi entro cui lavora il tempo. In questo senso la “scena di Hong Kong” è come se, una volta gettata sul tavolo da gioco (che è anche una tavola di montaggio-contagio), continuasse a ripercuotersi, a trasmettere contagio, esattamente come l’immagine filmica, una volta messa in moto, richiede continuamente di essere ri-montata, ritrasmessa, ripercossa e ripercorsa. L’immagine, una volta presa nello stesso reticolo della sua filmabilità, continua a r-esistere in un tempo-luogo parallelo, continua a svolgersi, a essere trasmessa e fermata, a ripartire e a bloccarsi, a glacializzarsi e a incendiarsi, proprio nello “sblocco” di un gesto. Un gesto che è un tiro, una scommessa, un toccamento, un gioco tattile, un sfiorarsi e una coalescenzaa di epidermidi. Tale è la trasmissione per contatto, tale una “scena sessuale” che scivola sui corpi sia che questi si stacchino tra di loro, sia che combaciano.

Le mani di Beth, il suo toccare e sfiorare, il suo mettersi in gioco sessualmente a Hong-Kong  produce di per se una generazione virale dell’immagine, e dell’immagine-prima, cui risalire. Quella scena, a prescindere dal suo contrarre il virus e dalla velocità di presa di questa trasmissione-contagio (che è anzitutto di immagine, essendo lei, le mani, i gesti, il contatto con il sangue e la sua commestibilità, nel gesto del cuoco cinese, cui le immagini ri-filmate e riviste risalgono, lei e tutto il plesso immagine-gesto-tatto riprese da una telecamera e ri-viste, bloccate e sbloccate, fermo fotogramma e messa in moto del configurarsi del gesto che si fa immagine), necessita di una sorta di incapsulamento nel film e di de-montaggio e ri-montaggio, una necessaria re-visione alla moviola digitale. Tutto il film si struttura intorno a una logica matematico-temporale e, non a caso, a un logaritmo digitale. Risalire le immagini significa ri-montarne il contagio (risalita è esattamente un rimontare, impossibile accesso al luogo zero, a una foce-origine che, per essere vista, deve necessariamente auto contagiarsi e dissiparsi).

La dottoressa Orantes deve risalire e rimontare  la corrente del fiume virale alla ricerca del “paziente zero”. L’immunità di Mitch e di sua figlia Jory sembra indecidibile, come un pezzo sconnesso in un gioco di caselle, vuoto necessario al muoversi delle caselle, che insieme separa e unisce i pezzi destinati al contatto, scindendoli in due metà e unendoli in una sorta di parallelismo atto d’amore-atto di contagio (in tal senso la scena di Jory e del fidanzatino distesi sulla neve senza toccarsi, ma muovendo in modo tattilmente fisico braccia e gambe sul terreno, sfocia in un furioso e desiderante abbraccio). Alan, il blogger che si inserisce con la sua teoria del complotto nel reticolo interstiziale tra verità e fake, tra funzionalità e presa diretta, lavora proprio sui milioni di contatti del suo blog e sul ripercuotersi della dissimulazione, e l’antidoto “forsiza” sembra alludere alla forza simulante delle immagini che si riproducono, si annullano, vertono verso un impossibile pareggiare, che dà sempre un resto, al di là del meccanismo autoimmune. Residuo di immagine che si sottrae allo sterminio comunicazionale. Il dottor Sussman riproduce in coltura il virus per trovare un vaccino ed è come se lavorasse, in montaggio parallelo e insieme “solcando” l’abisso vuoto tra le immagini, a una riproduzione destinata allo scacco della sua stessa rappresentazione. Immunitas e Communitas, per dirla con Roberto Esposito, che persegue di continuo una nuda vita delle immagini, immettendo nel film il suo assunto biopolitico, e, insieme, un discorso, alla Rancière, sulla “democrazia per sorteggio”.

Tutto avviene come una sorta di intossicazione comunicazionale, informatica, reticolare. Da qui il lato “ermetico” del discorso medicale, la faccia bifida veleno-antidoto che si attorciglia sui due lati come su un caduceo. Ciò che, riferito all’era informatica della Rete, Hillman ha tacciato appunto di “intossicazione ermetica”, in cui credenza nel modo e insieme ipersimulazione si danno la mano (“internet? E lei ci crede?”). In tal senso il filmarsi al computer del blogger, l’uso di tagli e inquadrature oblique attraverso specchi e retrovisori, il succedersi dei selfie sul telefonino di Beth. Il procedere e il risalire del film a salti retinici, a sbalzi reticolari ne disegnano l’emersione/immersione nel/dall’automatismo generante e impersonale delle immagini, della loro natura animale. Così scomponendo si arriva alla ricomposizione per contatto della catena di immagini, inestricabilmente prodotte dalla foresta dei segni: pale meccaniche che estirpano le palme che disturbano i pipistrelli che si spostano sui banani che lasciano cadere i frutti in un capannone di maiali che ne mangiano e vengono uccisi e portati nel ristorante hongonkiano che sono manipolati, fin dentro la bocca, da un cuoco che stringe le mani sporche di sangue a Beth. Appare come una ripercussione biblica, una caduta, una perdita del paradiso, un giudizio apocalittico. Visione che non cessa di emettersi “ab origine” e la cui infinitesima partizione costituisce e discioglie la risalita delle immagini virali (non a caso le immagini-informazioni della Rete hanno in sé la definizione di “virale”). Immagini filmabili-infilmabili, nella loro risalita.

                       
“Un virus è troppo piccolo per vederlo con una telecamera”. Eppure Soderbergh continua, infinitesimalmente, a filmare.

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