Il gioco, i giochi. Non occorre scomodare Roger Callois per riconoscere il potere del gioco come messa in forma del mondo, come possibilità di metterlo in gioco appunto, di inventarne le regole, di fronte ad un reale che per quanti sforzi si facciano si mostra sempre più evanescente, inafferrabile.

Il gioco è qualcosa di serio, lo sa chiunque ricordi, sin da bambino, la concentrazione e l’immersione nel mondo che il gioco permette di creare. Il gioco, si può aggiungere, è strettamente legato al cinema; soprattutto è legato ad alcuni sguardi, a una serie di film che potrebbero costruire una sorta di controstoria del cinema proprio a partire dalla centralità non dell’elemento ludico, ma dal gioco come insieme di regole, di criteri a partire dei quali è possibile dare inizio ad un film, accettarne l’aleatorietà, lottare perché una forma possa esistere, crearla. L’importante è che le regole siano create e non imposte, seguite ma non subite. Kubrick giocava seriamente quando metteva in forma la luce, naturale e pittorica insieme, di Barry Lyndon, o costruiva lo spazio come labirinto mentale e temporale nell’Overlook Hotel di Shining; Hitchcock costruisce il gioco del cinema nel falso piano sequenza di Nodo alla gola o nell’universo-cortile panottico di La finestra sul cortile. Gli esempi potrebbero continuare a lungo.

Il gioco dunque è, dal punto di vista cinematografico, l’invenzione di regole (pronte ad essere infrante all’occorrenza) che sottostanno alla creazione di un'immagine. Certo, ci sono registi che fanno del gioco un puro divertimento narcisistico, la presentazione della regola (del gioco) fine a se stessa (ed è in fondo il filo conduttore di gran parte del cinema di von Trier, da Dogma95 passando per le Cinque variazioni). Ma nei casi migliori il gioco è appunto il gioco del cinema che si rifiuta di accettare fino in fondo regole e canoni eterodiretti. Ci sono registi che fanno del gioco il modello e la forma del film, da David Fincher a Roger Linklater per fare solo due esempi, passando per l’autore che forse in maniera radicale e costante ha lavorato sul cinema come doppio gioco (al tempo stesso la messa in scena del giocare e l’invenzione delle regole di costruzione della sua forma).
Steven Soderbergh è il regista contemporaneo di questa teoria cinematografica dei giochi, che poi altro non è se non una messa in questione della potenza del cinema stesso. Basta scorrere la filmografia del regista statunitense per accorgersene. Ogni film del regista costruisce le proprie regole e così facendo reinventa il mondo a partire dalla forma che lo adotta. Se il cinema accoglie il mondo o lo ripresenta sotto un altro sguardo, può farlo proprio perché capace di reinventare anche le sue regole.

Sono riflessioni che nascono dopo la visione di High Flying Bird, l’ultimo lungometraggio di Soderbergh, girato con IPhone e prodotto da Netflix. Film sul basket senza immagini di campo, film che mette in scena la parola, i discorsi e gli scambi in interni, in uffici o ascensori, all’interno di palestre o campi di allenamento per ragazzi. Ecco allora la prima regola: come in Unsane, l’incursione soderberghiana nell’horror contemporaneo (girato anche questo con un IPhone), in cui è il meccanismo interno (del gioco economico, dello sfruttamento, della sottomissione) a dominare, l’interno in High Flying Bird diventa lo spazio privilegiato a partire dal supporto utilizzato. Le riprese in esterni in entrambi i film sono rare, spesso inquadrature di raccordo e realizzate in particolari condizioni di luce naturale. Ma quello che può sembrare un limite diventa nella logica del gioco la possibilità di sviluppare una particolare immagine filmica. Se in Unsane l’interno, la clinica per disturbi mentali è lo spazio della visione della protagonista, lo spazio-prigione che in realtà riflette la lotta spietata della giovane in carriera, nell’ultimo lungometraggio di Soderbergh la limitazione del mezzo è la possibilità della messa in scena della parola, del discorso dissimulato, dei giochi di seduzione o di alleanza che stanno dietro gli accordi tra la federazione nazionale di Basket e le agenzie che gestiscono i giocatori. Nella luce fredda del digitale i corpi appaiono come ricettacoli della parola, fatti quasi della stessa sostanza dei grattacieli e degli uffici luminosi dove si muovono agevolmente. Lo spettacolo, l’immagine di cui si parla (il campionato NBA) è fermo, ma i corpi e i discorsi non cessano di muoversi, di articolare le proprie strategie. Così facendo è lo spettacolo che si muove, che avrà poi la possibilità di muoversi, di esistere. I corpi-divi, i manager e i produttori, le potenti lobby: il mondo dispiegato nel film è uno straordinario analogon del mondo della produzione cinematografica, ancora più pregnante proprio per la scelta di lavorare con un formato che non permette di dare corpo allo schermo/stadio, ma che rovescia lo sguardo sull’interiorità delle stanze, delle poltrone, degli uffici dove l’immagine si fa immediatamente politica.
La scelta di girare con un Iphone non è dunque un puro vezzo autoriale, ma una precisa scelta di forma (più che di formato). D’altronde, lo si è accennato, Soderbergh ha spesso sperimentato forme che fossero in grado di dare corpo al mondo, ogni volta in modo peculiare. La centralità della voce registrata come abisso, vortice di rivelazioni e menzogne è al centro di Sesso, bugie e videotape, il folgorante esordio premiato da Wenders a Cannes; la visionarietà senza equilibrio di Kafka diventa la sfida impossibile di dare corpo alle visioni dello scrittore praghese; l’ossessione dei primi piani in Contagion, l’immagine povera e sgranata come il mondo dei personaggi di Bubble, la frammentazione dello schermo in Full Frontal, così come la moltiplicazione dei punti di vista di Mosaic, o il gioco jazz delle variazioni sul tema (la saga di Ocean e il suo rovesciamento proletario, La truffa dei Logan), vanno in fondo nella stessa direzione: ogni volta si tratta sempre di cercare una forma, magari destinata allo scacco, forse incapace di creare un’immagine definita del mondo, ma proprio per questo preziosa.
L’ossessiva ricerca soderberghiana va infatti sempre nella direzione di un cinema della catastrofe, come forse avviene, pur con tutta le differenze di intensità, nel cinema di Herzog, per fare un nome apparentemente lontano dalle inquietudini del regista americano. Immagini che proprio nella loro ricerca, nella loro peculiarità, mostrano il gioco del limite del cinema, che è anche la sua più grande potenzialità. Ogni film di Soderbergh sembra ritagliare uno sguardo nell’infinità degli sguardi possibili; ma per farlo deve mostrare il suo gesto, cioè la forma prescelta. È il limite ma anche la chance inaspettata del cinema stesso: il non poter essere (e forse neanche voler essere) sguardo totale, conchiuso, ma ogni volta ripensarsi come forma aperta, vitale ricerca di uno sguardo.
Basta ripensare alla camminata a piedi di André Holland (Ray Burke) lungo le strade della città, dopo aver scoperto di non avere i soldi per prendere un taxi. Soderbergh filma il personaggio cambiando in continuazione punto macchina, senza preoccuparsi delle regole classiche del raccordo sul movimento e anzi accentuando, inquadratura dopo inquadratura, il continuo scavalcamento di campo dello sguardo. Posta all’inizio del film, la sequenza sembra quasi porsi come chiave, come porta d’ingresso di un cinema che fa delle proprie limitazioni la sua ricchezza, creando cioè la possibilità di adottare uno sguardo parziale attraverso cui immergersi nella infinità molteplicità del mondo.
Il gioco è dunque serio e ancora una volta, come in ogni film degno di questo nome, interroga non il cinema, ma la sua potenza, la sua urgenza, la sua possibilità.



Film citati

S. Kubrick, Barry Lyndon (1975)
Shining (1980)


A. Hitchcock, Nodo alla gola (1948)
La finestra sul cortile (1954)
                         
S. Soderbergh, High flying bird (2019)
Unsane (2018)
Sesso, bugie e videotape (1989)
Contagion (2011)
Bubble (2005)
Full Frontal (2002)
Mosaic (2019)
Ocean’s 11,2 12, 13 ( 2001, 2004, 2007)
La truffa dei Logan (2017)

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