La condizione del soggetto contemporaneo è quella di essere connesso ad una serie di dispositivi desideranti e manipolatori, interfacce di simulazione integrale che articolano e riformulano tutte quelle relazioni capaci di determinare il suo essere nel mondo(come scrivono Deleuze e Guattari all’inizio de L’Anti-Edipo, siamo circondati in ogni parte da macchine, e non metaforicamente: macchine di macchine con i loro accoppiamenti e connessioni).

Il risultato di questa rete di connessioni multiple e simultanee è un mondo della simulazione dove ogni forma simbolica è morta e si sperimenta il reale come se fosse virtuale. L’intelligenza di questa rete di dispositivi polimorfi è quella di far scomparire la realtà e, nello stesso tempo, di camuffare questa stessa sparizione; lo aveva già intuito Valery: non si può fondare nessuna “era dell’ordine” basandosi sulla sola repressione, ma sono necessarie forze fittizie. Benvenuti nell’Impero della Finzione.
Soderbergh sta riuscendo (visto che il suo lavoro di cineasta prosegue nonostante i reiterati annunci di un suo “ritiro”) a scrivere per immagini la utopica e sempre “rilanciata” Great American Novel o una serie di capitoli di una comédie humaine post balzachiana della società dei consumi, capace di mettere in luce il carattere perverso del tardo capitalismo e le sue multiple manifestazioni, incarnazioni o aspetti (commercio della droga; industria farmaceutica; industria biochimica; prostituzione; sport, e su tutte, la merce delle merci, il Denaro).

La “posizione” del Cinema (le immagini, programmaticamente, come dice Didi-Huberman, si posizionano, prendono posizione), di fronte a questo Moloch polimorfo che la postmodernità e la finzione generalizzata dei suoi dispositivi ha provveduto a rendere, in un certo senso, solo più subdolamente metafisico, è duplice.
Nel primo caso il cinema lo asseconda, come un poderoso dispositivo fra gli altri dispositivi, costruendo una specie di soft parade in filiazione rizomatica: cinema inteso quindi, come industria, nella fattispecie dell’entertainment e della fruizione passiva (si tratta di una variante estrema, ai tempi della società dell’immagine, dello spettatore ennemi di quella sequenza delle Histoire(s) dove Godard monta insieme la folla che ride a crepapelle nel cinema di The Crowd (la moltitudine del consenso al totalitarismo) con le ombre ammonitrici del Nosferatu di Murnau (allusione alla vertigine notturna del regime nazista), alle quali segue un lapidario cartello con scritto The End. Ma, anche, cinema come una interfaccia fra le moltissime altre: pensiamo alle contemporanee modalità di fruizione: si guarda un film in maniera completamente de-aurizzata, sul nostro laptop, aprendo una finestra YouTube o in streaming, mentre navighiamo, scriviamo messaggi di testo o e-mail con il cellulare, interagiamo sui social network, o scattiamo una foto a quello che stiamo facendo, in una iper connessione multipla, rizomatica e completamente automatizzata.

Cronenberg nel suo romanzo Consumed e nel suo film Cosmopolis (tratto a sua volta da un romanzo di DeLillo), ha voluto mettere in luce proprio questa proliferazione multipla e già definitivamante - gustosamente post-human di dispositivi delocalizzanti e artificiali: “Naomi si affacciava sullo schermo” è la frase con cui inizia proprio Consumed, in un propedeutico interfacciarsi del volto sul  mosaico di immagini che appaiono simultaneamente sul computer, con le quali si interagisce contemporaneamente. Mosaico o Atlas: Warburg, negli ultimi pannelli del suo Atlante Mnemosyne, saturi fino a scoppiare di immagini tratte dalla pubblicità, dall’universo dei consumi, non aveva forse intravisto, con grande gesto euristico, proprio questa fagocitazione progressiva del White noise della pubblicità e del mercato in qualsiasi progetto di ricomposizione della memoria dell’Occidente dilaniato? (in un certo senso non c’è montaggio che non sia presa di coscienza della condizione di crisi della narrazione contemporanea, come ben diceva Lyotard). Mosaico virtuale nel quale c’è già tutto l’essere consumatori-consumati come patologia postmoderna: Naomi sta sullo schermo come già, in maniera assolutamente premonitrice, lo erano i personaggi di Sex, Lies and Videotape, in un inizio di virtualità ancora tutto meccanico-elettronico: incipit Videodrome.
Ma il cinema è anche, ovviamente, tutt’altro (secondo caso: è possibile leggere qui, in filigrana, quella distinzione inaugurale fatta da Ejzenstejn nello scritto “Dickens, Griffith e noi”): è capace, cioè, di attivare e produrre una programmatica “sollevazione” delle forme, mimando questo grande dispositivo di connessione e controllo, descrivendolo pezzo per pezzo, mettendone in luce l’ingranaggio perverso, paranoico, per disattivarlo o per lo meno mostrarne i punti di criticità.

 

Può, ad esempio, il cinema, provare a rivelare la fragilità sostanziale di qualunque “supporto” (se la superficie di iscrizione è fragile, nulla è perdurabile e tutto è destinato a scomparire: è il fondo arenoso dell’immagine, la cui solarizzazione oggi si è trasformata in esplosione del mucchio selvaggio di pixel); può mimare la confusione dell’avvicendamento fra allucinazione e realtà (la realtà diventa così qualcosa di difficilmente padroneggiabile e una superficie porosa dove al “fatto” si sostituisce un continuo avvicendamento di piani); può mostrare come la macchina di simulazione postmoderna sia capace di impossessarsi di un meccanismo narrativo per trasformarlo in una alternanza implacabile o destino; o, infine, mostrare l’erezione di questo vasto dispositivo automatico di registrazione e controllo che possiede la forma di una stanza chiusa di difficile accesso, segreta senza porte né finestre.
Il cinema di Soderbergh è, in primo luogo, una riflessione sul supporto. Interessante è proprio come il cineasta attraversi l’intero passaggio-paesaggio della storia dell’occhio che comprende pittura (Soderbergh è anche un pittore: il NY Times descrive le sue opere come simili a quelle della pittrice espressionista astratta Agnes Martin) pellicola - video -digitale, fino alle ultime conseguenze: Unsane girato con un Iphone ultima generazione e gli esperimenti di mash-up.

In Sex, lies e Videotape le registrazioni video conservate da John sono una specie di mosaico elettronico di volti e delle loro storie con la conseguente creazione di un grande archivio intimo dell’era pre-digitale (privato stavolta e non in mano a qualche oscuro ente governativo come in un altro film sull’immagine video qual è The end of killing di Wenders): Wenders, a proposito dell’immagine elettronica parlava proprio di un telum dell’immagine video, che permetterebbe di vedere da vicino ciò che è lontano e dove non è possibile risalire ad una origine, ad un originale inteso come negativo. Come scrive Deleuze (in quella fondamentale ricapitolazione cronologica delle tre fasi dell’immagine scritta “a margine” del Cine journal di Daney), nell’immagine-video il fondo è già l’immagine, ogni immagine scivola sull’altra in un insinuarsi e inserirsi dello spettatore nell’incavo e dove un occhio vuoto è in contatto con una non-natura attraverso l’artificio dello zoom e quello dello zapping aleatorio e omniassorbente del telecomando. Soderbergh lavora, con Unsane, proprio sul primo dispositivo (lenticolare) e, con Mosaic, sul secondo (protesi-elezione).
Unsane tutto girato con l’i-phone si avvale di un supporto fragilissimo ma anche super maneggevole, vera camera-stylo astruchiana posmoderna, “video-penna” che più che scrivere o segmentare, si avvicina zoomando, creando un mondo completamente instabile, riproducendo la psicosi di uno sguardo narcotizzato dai farmaci in soggettiva, semi-soggettiva o soggettiva libera indiretta, come quell’altro occhio schiuso tutto diverso e altrettanto alterato, oppiaceo e rembrandtiano, impegnato in un continuo scrutinio-sorvolo che è quello del dottor John Thackery in The Knick. Sarebbe interessante associare i piani vacillanti e deterritorializzanti di questo film con quelli di Kotoko di Tsukamoto e, in generale, con tutta quella praxis del regista giapponese di utilizzare la camera a mano come una protesi tecnomorfa, che filma un universo non padroneggiabile utilizzando la memoria di un cieco.

Il telecomando, nell’ultimo Mosaic, diventa invece strumento interattivo di scelta e co-creazione spettatoriale (ricordiamo quello che era: strumento dello zapping, tecnica di montaggio aleatorio della cultura dell’appropriazione postmoderna, procedimento di assimilazione e godimento della superficialità assoluta non scevra da sensi di colpa a posteriori provocati da una protesi che permette di giuntare fra loro «i pettegolezzi hollywoodiani» e la «guerra nei balcani», come scrive lo scrittore boliviano E. Paz Soldan nel suo romanzo intitolato non a caso Sueños Digitales). Il risultato è la possibilità di cambiare di punto di vista (Genette avrebbe parlato di transfocalizzazione) e quindi, usufruire di una distinta messa a fuoco, fino al ritorno, proprio in Mosaic, alla pittura.
La mini-serie TV interattiva termina infatti con due musei: il primo è la «redroom», la pinacoteca privata del magnate che colleziona soprattutto quadri postimpressionisti.
La grande tela che Petra Neill fissa alla fine dell’ultima puntata (la giovane, sorella del falso (?) colpevole che si improvvisa detective per tentare di scagionarlo, è una studiosa del divisionismo italiano ed una restauratrice), è opera, non a caso, del più sensuale ed eretico pittore della compagine puntinista, Henri-Edmond Cross (il dipinto, che risale al 1908, si chiama L’arrivo della tempesta, e mostra una donna, una bagneuse, nuda su una spiaggia, distesa su un enorme telo bianco), capace di innestare i precetti della scuola di Seurat e la formula ottica della purezza spettrale, con una sfrenata sensualità coloristica e golosamente materica a cui guarderanno Matisse, Derain e i Fauves. Impossibile non pensare, allora, a un altro quadro postimpressionista, Le Grandi Bagnanti (1905) di Cézanne utilizzato in Split di Shyamalan.

Se il tardo barocco di cui il cinema dei primordi era l’ultima grande incarnazione (fino ai grandi cineasti della contraffazione) mostrava una volontà di forma capace di costruire un mondo secondo e autosufficiente attraverso l’arte avvalendosi di una riconfigurazione programmatica dei dati tradizionali, il gusto postimpressionista ravenant nell’epoca digitale sembra operare sul supporto-corpo e sul margine dell’immagine.
Se l’utilizzo di Cézanne da parte di Shyamalan ci sembra una riflessione sull’effetto di clausura e pressione del tempo sulla figura (fino a rivelare strutture permanenti, dove ogni oggetto è la sintesi delle sue configurazioni fenomenicamente parziali) l’aspetto del puntillisme, e ancor più della deriva sensuosa di Cross (quasi omonimo di quel Charles Cros amato da Breton e dai surrealisti, poeta e inventore, fra le altre cose, di un procedimento per la lavorazione del colore in fotografia) che pare interessare Soderbergh è, in un certo senso, opposta. Riguarda, infatti,la composizione stessa dell’essere, attraversato da una scomposizione atomica simile ad un rabbrividimento di pixel sottopelle, metafora dell’eterno lavorìo della materia dissimulato dietro o dentro la coerenza razionale dell’impaginazione prospettica, in un brulichio incessante sulla scorza delle cose che riguarda la gota della giovane donna di profilo della Grande-Jatte e i mille granelli di sabbia del quadro di Cross (un appunto: Seurat dipinge, finge anche la cornice: tutto è parte della scomposizione atomica puntillista). Accostarsi troppo ad un quadro puntillista implica, come nel finale cronenberghiano e delilliano di Consumed e Cosmopolis, partecipare ad una specie di esplosione, dove il viso dell’interlocutore via Skype (Consumed) all’improvviso si disintegra in una pioggia di pixel luminosi: l’immagine digitale sembra contenere dentro di sé un disturbo che mette in metastasi la trasparenza del codice che lo regge; Cosmopolis termina, in maniera altrettanto radicale, con il desiderio del protagonista Erick di trasformarsi in polvere quantica, chip, archivio di dati, insomma, mosaico.

Non esiste immagine che non sia, allora, Mosaic, come quello, postumo, di Olivia Lake, universo museale creato a partire dal suo romanzo per bambini e composto da tutta una serie di materiali soft e ghiotti (pupazzi, disegni), fino al ritratto della stessa Olivia ad acquarello. Si tratta di opere infantili, che come scrive Pinzhorn, sono veri e propri pittogrammi, immagini che si situano vertiginosamente all’opposto del riquadro puntillista ma anche del videotape e del digitalee manifestano un bisogno di espressione dello psichico, cioè quell’insieme dei processi pulsionali non sottoposti ad alcuna finalità esterna ma rivolti solo a sè stessi e alla propria Gestaltung o volontà di forma, abbattendo ogni barriera tra l’io e l’altro. Per Prinzhorn il disegno infantile è un esempio di immagine visuale, dove entrano in gioco tutta una serie di fattori personali e disposizioni affettive che emergono attraverso un personale schematismo. L’immagine è una libera glossolalia della forma sotto la spinta pulsionale al gioco, che rappresenta l’opposto dell’attività di ornare, in una sorta di divaricazione analoga a quella di Bataille fra gioco e lavoro, per il quale il “segno di gioco” è “segno di chance”; o, anche, come spiega Didi-Huberman, si tratta di transitare dall’apparenza all’apparizione, dall’impressione retinica che trattiene ciò che transita davanti agli occhi su un piano a qualcosa che si apre alla dimensione tattile di una tridimensionalità virtuale.
Il risultato, come si vede nell’ultima straordinaria sequenza di Mosaic, è un piccolo museo dell’immagine pittogrammatica, che mostra, fra gli altri disegni, delle mani che stringono un joystick dal quale spunta un filo di connessione all’interfaccia che scompare fuori campo; una “bandiera” fatta con tratti longitudinali color pastello che ricorda vagamente un’opera di Agnes Martin; un paesaggio costituito da un poligono aperto e una serie di pannelli colorati in una piana deserta, e, ultimo, il ritratto di Olivia, con il quale Petra si misura attraverso il meccanismo del campo e controcampo e dello zoom, in un movimento di immersione similare a quello sperimentato davanti al quadro di Cross.
Museo che è anche quello che raccoglie, virtualmente tutte le immagini della storia del cinema, alla quale Soderbergh attinge per i suoi progetti di mash-up video. Dalla pinacoteca al museo del cinema, strappando però il cinema “classico” da questa sua fruizione museale, in maniera analoga a quanto faceva Godard (e come non citarlo) che, nelle sue lezioni in Canada, fertilmente preparatorie alle Histoire(s) mostrava insieme, ad esempio, Dracula di Browning (o Freaks), Germania Anno zero di Rossellini, The fall of Roman Empire di A. Mann,The Byrds di Hitchcock e il suo Week-end.

Il più famoso mash-up di Soderbergh (altri sono quello fra i due The Killers di Siodmak e Siegel, dove utilizza il sistema a dittico dello split screen e l’altro, assolutamente godardiano, fra Criss Cross, di nuovo di Siodmak e il suo The Underneath) è, forse, il ri-montaggio anacronico dei due Psycho di Hitchock e Van Sant dove Soderberg insiste sulla sovrapposizione dei due film assecondando un vero e proprio montaggio di tempi. In una operazione come questa la semplice giunzione diventa soglia, passage (ogni sconfinamento di Marion nell’altro spazio tempo è davvero simile al whormhole spazio temporale da dove filtrano altre due figure umbratili come la ninfa di Warburg-Jolles e il detective Cooper di Twin Peaks, Il Ritorno; la prima, figura dell’antico risorto, passa attraverso una soglia che la deposita nel bel mezzo di una scena post-parto altoborghese, il secondo, abitatore di mondi, scivola attraverso, addirittura, una presa elettrica) e ogni figura rilascia «pasos en las huellas» quasi cortazariani (Cortázar non ha forse intitolato, nella ricompilazione postuma dei suoi racconti Passages il secondo volume? E il racconto El otro cielo è proprio la chiusa sul Passagenwerk di Benjamin, ricognizione di uno spazio rizomatico e sotterraneo). Nel ri-montaggio di Soderbergh, ad esempio, la Marion che osserva nello specchietto retrovisore del film di Van Sant vede “l’altro paesaggio”, quello in bianco e nero del film di Hitchcock di trenta anni prima; o, anche, suona il clacson davanti al Motel Bates e ad uscire dalla grande casa neogotica è il Norman di Hitchcock.

È la lezione, ancora, di Godard: qualsiasi controcampo è suscettibile di virtualizzarsi sempre con qualcos’altro (nella parte 2a delle Histoire(s) il bambino di Persona di Bergman non accarezza virtualmente il primo piano della Lulu di Pabst?). Nello stesso tempo Soderbergh si dimostra fedele fino all’eccesso al testo a monte (non a caso gli piace citare la frase di Stravinskij dove il musicista parla della necessità di avere un campo di azione ristretto, circondato di ostacoli) evitando qualsiasi “inserto paradossale” nel rispetto di una continuità impossibile (sarebbe stato magnifico, ad esempio, che il Norman di Van Sant si masturbasse spiando la Marion di Hitchcock, o che, quando Antony Perkins accende l’insegna del Bates Motel, ad attivarsi, godardianamente, fosse stata una opera al neon di Dan Flavin etc.). In questo montaggio apparentemente invisibile nel suo certosino rispetto dei tagli, delle angolazioni, etc. (il montaggio è sempre un pensiero “fatto con le mani”) a prodursi è, comunque, una sacca di tempo, uno spazio vuoto fra una immagine e l’altra (come “scrive” Godard a Freddy Buache, sempre esiste qualcosa fra cielo e acqua, ed è fra acqua e cielo che Norman lascia affondare l’unica prova del crimine, l’auto), una eccedenza che in questo sfregamento“fa” risonanza, e che mostra tutta la sua flagranza nel momento della violenza (J-L.Nancy non l’aveva forse descritta come l’atto, ottuso, del martello che per schiodare il chiodo dal muro, si accanisce lasciando una crepa, un spazio vuoto e poroso nell’assoluto monocromo e liscio della parete?). È nelle scene di violenza e morte che Soderbergh rinuncia al montaggio per servirsi della sovraimpressione: le due Marion simultaneamente morte nella scena della doccia vedono, ad esempio, come la loro immagine sia impossibile da far combaciare esattamente: i due spettri collidono senza concordare, si sovrappongono manifestando, nell’esplosione della violenza, tutta la loro irrimediabile distanza. 

Altro aspetto è quello della dicotomia sogno/veglia, realtà/immaginazione: nel cinema hollywoodiano classico (pensiamo per esempio, e non è casuale, allo Spellbound daliniano e piranesiano di Hitchchcock), l’ingresso nel doppio fondo del sogno e del delirio è sempre preceduto dal warning della dissolvenza, che avvisa propedeuticamente dell’ingresso nel territorio dell’altrove. In Unsane la normale alternanza sembra diventare porosa: cosa è la realtà? Risuona forte qui la domanda chiave della modernità, moltiplicata dalla proliferazione contemporanea dei dispositivi di controllo. La giovane Sawyer continua a vedere dappertutto (nonostante il trasloco in un’altra città con il conseguente cambio di indirizzo, abitudini etc.) lo stalker che la perseguita e, in effetti, l’uomo  è riuscito a seguirla fino all’ospedale psichiatrico dove è stata ingiustamente ricoverata, rubando l’identità di un infermiere.
C’è un altro fim che medita su questa confusione di livelli, ed è Waking Life di Richard Linklater (non è forse un caso che Soderbergh sia il produttore del successivo film di Linklater in interpolate rotoscoping, ovvero live action ritoccato con animazione grafica digitale, A scanner darkly, da P.K. Dick, altro film sulla dipendenza, stavolta non da farmaci antipsicotici ma da sostanze allucinogene e anfetaminiche) dove il personaggio principale vive una serie di conversazioni immersive, ed è, come dice, connesso in un processo attivo dove la vita è il sogno di un altro, il sogno di un morto che non può fare ritorno al suo corpo fisico. Film, questo di Linklater, che contiene, come uno specchio centrale che apre all’interno dell’odissea del protagonista una specie di spirale dove il film si ingorga su se stesso, una discussione sul romanzo di P.K. Dick Scorrete lacrime, disse il poliziotto. Dick bambino, racconta Jean Claude Carrière, aveva un sogno ricorrente dove ogni volta tentava di leggere, senza riuscirci, un numero della serie di fantascienza Astonishing dal titolo evocativo L’impero non ha mai smesso di esistere.

Lovecraftianamente (e carpenterianamente), leggere il libro lo avrebbe fatto impazzire. L’Impero è la prima apparizione di quel Valis (Vast living inteligent system - Nous gnostica-Antenna parabolica) che avrebbe tormentato lo scrittore nei suoi ultimi anni e che avrebbe tranquillamente potuto prendere l’aspetto di grande mosaico di TV di controllo, in un mondo dove tutto è filmabile e, quindi, registrabile. È quello che succede nei Casino della serie Ocean, ma, anche,nell’ospedale di Unsane: tutto è registrato-filmato, e allora lo stalker è costretto a rinchiudere Sawyer all’interno di una insonorizzata Blue Room alla quale ha disattivato tutte le telecamere di controllo (si tratta, insomma, di trasformare la casa del Grande Fratello in una segreta sadiana, non troppo dissimile da quella dove Kevin Wendell Crumb rinchiude Casey e le sue due amiche in Split).
Un mondo a parte: nell’universo paranoico ricostruito da Soderbergh è sempre possibile questa piega, questa concretizzazione di un altrove illocalizzabile dove chiunque può essere, all’improvviso, rinchiuso, come un cadavere. Stanza senza finestre, monade: The Knick ci mostra altre due forme di clausura estrema, la red room dell’oppio di Chinatown e la Sala di anatomia. La prima ci riconduce d’un balzo al “chiosco bizzarro” di Baudelaire, dove, come avverte Saint-Beuve, si assumono mille droghe abominevoli in tazze di porcellana finissima e dove l’apertura è quella dei paesaggi animati dell’occhio interiore.

La seconda, ancor più programmaticamente, rimanda allo scrutinio del corpo cavo da parte dell’anatomista-detective che apre l’interno del corpo per interpretarlo attraverso una mappa di figure adeguate: l’anatomista è (come suggerisce Sloterdick nel terzo volume del suo Sfere- intitolato Schiuma, come schiuma digitale è la deriva erratica dei pixel) un geografo dell’intimità che rintraccia con perizia i disegni architettonici del mondo macchinico interno. Passiamo così da una interfaccia a una cavità, da un profilo al «questo sei tu» della visione di Irma di Freud descritta da Lacan, shining dell’interno e dell’interiore.
Il fine è, per il dottor Thackery, l’ennesima ricerca dell’anima, che fu già argomento della Tavola “vaticinante” n. 75 dell’Atlas Mnemosyne di Warburg (intitolata “Anatomia magica. Aruspicina; ricerca della sede dell'anima. Anatomia scientifica; contemplazione mentre è in corso la lamentazione funebre. Anatomia animale; anatomia umana patetica e contemplativa”) e che mostra, fra le altre immagini, in questo suo Mosaic della modernità,frame con Democrito e Ippocrate che ragionano a proposito dell’esistenza dell’anima, scene di anatomia e La lezione d'anatomia del dottor Nicolaes Tulp (1632) di Rembrandt dove, grazie all’artificio di un punto di vista ribassato si vede la vertigine del corpo aperto del cadavere che viene letteralmente “mostrato” allo spettatore. L’anatomista mostra un corpo squarciato, un abisso all’altezza del costato: il de humanis corporis fabrica in The Knick, rivela il suo essere una finestra sul vuoto.

In The House of Fiction di Henry James il narratore passa di fronte ad una finestra aperta, intravede una scena e cerca di immaginare quello che sta succedendo all’interno della stanza, un po’ come James Stewart in Rear Window. Il centro della finzione è sempre un nucleo instabile di forze, una spirale, che necessita un lavoro speculativo per essere intepretata. Non a caso The Knick finisce dove Unsane inizia, con il paziente a colloquio con uno psicoanalista: la terapia della parola, che stava sorgendo allo scadere del XIX secolo e che nel secolo XXI si appoggia all’uso selvaggio della farmacologia, riesce dove l’anatomia aveva fallito: la scoperta e il colloquio con l’Anima del paziente, la scoperta della chiave di vetro che permette l’ingresso nella Casa delle Finzioni del soggetto, perlustrandola in soggettiva grazie all’artificio del transfert.

È l’inizio di Side Effect dove un deragliamento della macchina da presa mostra (dopo una citazione proprio di Psycho, con l’occhio della camera che penetra attraverso una finestra fra le mille monadi di un moderno palazzo), in un movimento contrario a quello jamesiano, una sedia capovolta, corridoi deserti, una striscia di sangue, alcune impronte e un pacco con il rosebud di una barca a vela di legno. Il film inizia così. Con una “scena del crimine” inesplicabile che, nella casa delle finzioni che è il cinema di Soderbergh, si rivelerà essere una simulazione abilmente orchestrata. 

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