«Mi spiegò che essere senza scarpe è una colpa molto grave. Quando c'è la guerra, a due cose bisogna pensare prima di tutto: in primo luogo alle scarpe, in secondo alla roba da mangiare: e non viceversa, come ritiene il volgo: perché chi ha le scarpe può andare in giro a trovar da mangiare, mentre non vale l'inverso. - Ma la guerra è finita, - obiettai: e la pensavo finita, come molti in quei mesi di tregua, in un senso molto più universale di quanto si osi pensare oggi. - Guerra è sempre, - rispose memorabilmente Mordo Nahum.»


Primo Levi, La tregua


Chiunque voglia affrontare in blocco o per singoli studi di caso l’opera di Mario Martone rischia di ripetersi. O di ripetere cose già scritte, già dette, già viste e sentite anche all’interno dei singoli film, dei singoli spettacoli. I film e gli spettacoli, o i libri di Martone, contengono al loro interno, fino a Capri-Revolution, discorsi, dibattiti, posizioni che si confrontano e si affrontano. Il problema è individuare un approccio diverso, magari con effetto genealogico.
Occorre dunque un approccio trasversale. Cercare Martone, dentro Martone, significa procedere lateralmente, individuare connessioni, all’apparenza marginali. Far emergere aspetti occasionali e contingenze che tali non sono e all’improvviso esplodono, si rivelano sostanziali.

Capri-Revolution porta ad esempio allo scoperto una questione di lunga durata, sulla riproducibilità a tempo indeterminato, quindi tanto più atroce, di una guerra che allora venne definita “grande”. Come se più “grande” di così non potesse essercene altra. E invece, dal sequel, la Seconda guerra mondiale, ecco che quella guerra pregressa, l’ex “grande” guerra diventa la Prima. Lo diventa quindi in funzione della Seconda, profilando la (ir)ragionevole ma sostenibile possibilità di una Terza e via discorrendo lungo l’asse aritmetico delle infauste prospettive della (dis)umnità. Capri-Revolution implica e ingloba tutto ciò: il progresso, il regresso, le utopie, il baratro numerabile. E contiene ovviamente Francesco Rosi. Il Francesco Rosi che realizza Uomini contro (1970) in piena temperie del Sessantotto: non un film sulla rivoluzione giovanile, ma sulla rivoluzione del concetto stesso di guerra. Venuto meno il progetto del film sull’oscura fine di Ernesto Che Guevara, che avrebbe coronato il suo appuntamento cronologicamente esatto con il 1968, oltre che con il Sessantotto in senso lato, non può non leggere l’asse passato/presente/futuro attraverso il filtro di Uomini contro. Per capire Martone, alla lettera, serve quindi ricominciare tutto daccapo. Dal principio. Perché l’opera di Rosi, giunta quasi alla fine contiene oltretutto fisicamente il “giovane favoloso” Martone, attore di se stesso. In Diario napoletano (1992). E perché Uomini contro, come Capri-revolution, contiene il principio della madre di tutte le guerra finali, numerabili. La filmografia e teatro grafia di Rosi si conclude con la Seconda guerra mondiale, ovvero con La tregua (1997) al cinema e Napoli milionaria (2006) a teatro. Quella di Martone avvicenda tra un ambito e l’altro, come in un sistema di vasi comunicanti, I sette contro Tebe, Teatro di guerra, Capri-revolution.
Per afferrare il meccanismo che lega Uomini contro e Capri-revolution, e viceversa, quindi Teatro di guerra e Napoli milionaria, bisogna ripartire da Eric Hobsbawn, che nel Il secolo breve rammentava «la domanda, mossagli da un intelligente studente americano, se la locuzione “seconda guerra mondiale” significasse che c’era stata anche una “prima guerra mondiale”». Non si tratta di una mera suggestione. Ma di un’affermazione. Di un concetto, riconducibile a un film di Billy Wilder, guarda caso un remake, come remake è la Seconda rispetto alla Prima guerra mondiale nel momento in cui quest’ultima/prima smette di essere la “grande” guerra. Per di più si tratta, per Wilder, di un film autoreferenziale: è il del remake di un suo film, Fedora (id., 1978), remake di Viale del tramonto (Sunset Boulevard, 1950). La Fedora del titolo si finge un’anziana contessa, salvo poi scoprirsi essere lei la vera diva, modellata sull’esempio della Garbo. Come ogni essere umano, è soggetta alle leggi del tempo e dell’invecchiamento. Mentre l’altra protagonista, la figlia-sosia data in pasto ai mass-media come l’immutabile Fedora, è la vittima in parte consenziente di una mistificazione. L’anziana donna, l’inconfessabile Fedora fisiologicamente mutata, nomina a un certo punto la “guerra”. Il non più giovane produttore in bolletta le chiede se si stia riferendo alla ”prima guerra mondiale”. Infastidita dalla domanda, l’altera contessa/diva precisa: «All’epoca non eravamo soliti numerarle». Le guerre. Il problema, donde la natura concettuale, meglio: percettuale, che innesca un duplice effetto di «differenza pura» e di «ripetizione complessa», secondo la terminologia deleuziana, collegando non solo Fedora a Viale del tramonto, ma anche un altro celebre film sulla Prima guerra mondiale, quando era ancora chiamata la “grande” guerra, al remake trasferito per ovvie (s)ragioni collettive alla Seconda: I quattro cavalieri dell’Apocalisse (The Four Horsemen of the Apocalypse, 1921) di Rex Ingram e l’omonimo film di Vincente Minnelli del 1961, quarant’anni dopo. il film numero uno, quello con Valentino, al film numero due, quello di Minnelli. La logica, sullo sfondo, è la medesima che salda Uomini contro a La tregua, e questo dittico rosiano a quello parallelo di Martone composto da Teatro di guerra e Capri-revolution. La logica, tragica, è riassunta nella battuta celebre del personaggio del romanzo autobiografico di Primo levi citato in esergo: «Guerra è sempre». Nel cercare Martone seguendo le tracce di Rosi, cercheremo di seguito di adoperare Deleuze come sistema operativo, il quale nell’Abecedario audiovisivo, alla lettera “I” come “Idea”, adopera proprio l’esempio de I quattro cavalieri dell’Apocalisse, quello di Minnelli, per dare una definizione di “idea” al cinema, ergo un’idea di cinema. Per Deleuze le idee, se in filosofia si manifestano sotto forma di “concetti”, nell’arte intesa come «blocco di sensazioni», e quindi nel cinema, trovano il corrispettivo nei “percetti” e negli “affetti”. In particolare: «I percetti [che] non sono percezioni, sono indipendenti dallo stato di chi li prova. […] Lo scopo dell’arte, attraverso il materiale, è di strappare il percetto alle percezioni di oggetto e agli stati di un soggetto percipiente». Deleuze sostiene che la creazione di un’idea è fondamentale – cito testualmente - in «un regista che mi colpisce, quando è un buon regista... Ci sono moltissimi registi che non hanno avuto alcuna idea. Ma le idee sono qualcosa di ossessivo. Vanno, vengono, si allontanano e poi prendono diverse forme e attraverso queste forme, per quanto diverse, diventano riconoscibili. Penso a un autore di cinema come Minnelli. Si può dire che in tutta la sua opera - forse non in tutta, ma prendo questo esempio – si chiede esattamente: la gente sogna, tutti sognano - ne abbiamo parlato molto, è banale dirlo - la gente sogna, in certi momenti. Ma Minnelli pone una questione molto strana, che credo gli sia propria: che cosa significa essere imprigionati nel sogno di qualcuno? E va dal comico al tragico all’abominevole. Cosa vuol dire ad esempio essere presi nel sogno di una ragazza? Possono venir fuori delle cose terribili dall’essere presi nel sogno di qualcuno. Essere presi nel sogno di qualcuno: forse è l’orrore allo stato puro. Minnelli prende ad esempio un sogno: cosa vuol dire essere prigionieri dell’incubo della guerra? E penso a I quattro cavalieri dell’Apocalisse, che è magnifico, in cui non affronta la guerra in quanto tale, non sarebbe Minnelli. Affronta invece la guerra come un grande incubo. Cosa significa essere prigionieri di un incubo? Cosa significa essere presi nel sogno di una ragazza? Sono le sue opere musicali, le sue famose opere musicali in cui Fred Astaire, credo, o forse Gene Kelly, sfugge alle tigri, alle pantere nere, non ricordo bene. Essere presi nel sogno di qualcuno: direi che questa è un’idea. Eppure non si tratta di un concetto. Se Minnelli avesse proceduto per concetti avrebbe fatto della filosofia, ma ha fatto del cinema».



Ora, per comprendere il percorso compiuto da Minnelli, nella sua versione de I quattro cavalieri dell’Apocalisse, occorre tener ben presente il precedente film. L’incubo della Seconda guerra mondiale che si manifesta sotto forma di ossessione biblica del vecchio Madariaga - e che totalizza dal principio l’esistenza dei personaggi, della Storia, del destino dell’umanità - è tale in Minnelli, a distanza di quarant’anni, in quanto “ripetizione” dell’incubo della Grande guerra. Ribaltando l’assunto, nella versione con Valentino l’annuncio della guerra giungeva solo in corso d’opera, all’incirca al cinquantunesimo minuto di proiezione. Minnelli marca le distanze dal prototipo preferendo introdurre l’incubo della guerra apocalittica già in una delle prime sequenze, dopo aver obbedito a un ossequio poco più che formale al film con Valentino, ripetendo la sequenza del tango argentino nella quale fa la sua prima apparizione Julio (lasciando però che Julio interpretato dal ben più borghese e assai poco divo Glenn Ford, neanche troppo giovane, ceda la scena - e la danza - al più vivace Madariaga). Dopodiché, ipotecando l’intero svolgimento della vicenda, gioca in anticipo l’immagine funesta e onirica dei Cavalieri dell’Apocalisse preannunciando una nuova guerra che non può più dirsi “grande” perché non è più né la prima né l’unica. Tanto che l’unico tratto distintivo diventa un inquietante numero.
L’incubo all’origine della delirante visione di Madariaga, che ci aiuta a orientarci negli incubi congiunti e contigui di Rosi e Martone, nasce perciò da una scoperta repentina: la contabilità della guerra. Detto altrimenti, persino la madre di tutte le guerre: la “grande” guerra, una guerra alle spalle e all’orizzonte, non ricominciabile, l’evento estremo e definitivo viene sottoposto alla più atroce delle procedure matematiche. Sottostà ai numeri. Lui, Madariaga, erra idealmente da un film all’altro e da una guerra all’altra. Prima di morire fulminato da un infarto, mentre le fiamme, i tuoni e i lampi ne siglano le visioni funeste, egli maledice la sua progenie e il nazismo. Urla, vede l’Apocalisse o, meglio, “rievoca” l’Apocalisse come un remake plurivalente. E induce tutti i presenti, parenti e discendenti, con le sue parole estreme, profetiche, di chi sa per aver visto la guerra e il film pregressi, a vedere concretamente i suoi stessi incubi e a condividere lo sgomento: «Prima il Kaiser, adesso... Voi volete ridare il via a tutto questo? [...] Seme del mio seme [...]. Ho procreato assassini. [...] Vecchio, vecchio stupido imbecille, credevi di non rivedere più la Fiera dell’Apocalisse?». Le figlie, i nipoti, i generi, nazisti e antinazisti, senza soluzione di continuità, cominciano da questo momento a vivere e a morire stretti nella morsa di quest’incubo preliminare. Segnati da un film e de un evento che stendono sul presente un’ombra funesta. Il patriarca Madariaga, come se provenisse direttamente dalla versione de I quattro cavalieri dell’Apocalisse del 1921, incarna una sorta di sapere spettatoriale, sostituendo da subito la figura onnisciente dello Straniero che allora evocava l’Apocalisse solo a metà del film. E lo faceva rivolgendosi al giovane Julio, al divo Valentino, e al suo segretario, a partire dalle illustrazioni di Albrecht Dürer.
Martone non teme i maestri. Non teme di riprodurre o inserirsi in un paradigma o in più di uno. La tragedia greca, la parabola di Giacomo Leopardi, il magistero di Francesco Rosi, l’enigma della guerra, la guerra una/tutte, sono elementi sostanziali della sua creatività. Anche la parola “maniera”, che non vuol dire riproduzione anonima ma chiama in causa la riproducibilità meccanica, estetica e concettuale dell’arte, quindi il cinema, gli è familiare. Di più: congeniale. Egli crea e ricrea, senza soluzioni di continuità. «Io, per me, arriverò, arriverò nel fondo anche senza Eroi! Pur senza i Maestri, senza i Maghi della Merda! Cieche guide al Sottosuolo!» recita nel suo monologo inframmezzato lo scugnizzo in mutande di Rasoi, lo spettacolo scritto da Enzo Moscato che Mario Martone e Toni Servillo mettono in scena la prima volta nel 1990 al Teatro Mercadante di Napoli, e che diventa inevitabilmente un film nel 1994, immediatamente dopo Morte di un matematico napoletano. Rasoi, appunto, dove lo stesso Servillo, nel ruolo del guappo, nel monologo stavolta ininterrotto, ricavato da Litoranea di Moscato, esclama: «La maniera qui, è l’unica parrocchia dove si affresca il vero».
A questo punto, il passo indietro, al 1992 di Diario napoletano e di Morte di un matematico napoletano, complice l’aggettivo “napoletano” che accomuna Rosi e Martone, è fisiologico.



Il 1992 infatti non è solo l’anno in cui viene presentato alla Mostra di Venezia il lungometraggio d’esordio di Martone Morte di un matematico napoletano, ma anche l’anno di Diario napoletano, il penultimo film di Rosi, che va in onda per l’esattezza su Raitre il 3 dicembre 1992, e del “documentario” conserva appena la parvenza. Ogni cosa, persino la presenza strategia del debuttante Martone, con Roberto De Francesco al fianco, è pensata, scritta, preparata. Sin dalla prima sequenza in cui si assiste a una retata nelle famigerate Vele di cemento e malavita di Scampia che preannuncia Gomorra (2008) di Matteo Garrone e le quattro serie tv omonime che dal 2014 riscrivono la geografia e la storia della televisione italiana spostando l’immagine della società nella metà campo criminale, come nelle tragedie di Shakespeare. Rosi in questo strano impasto di finzione, analisi retrospettiva e alibi documentaristico, che può piacere o non piacere, non è questo il punto, non può fare a meno di tornare a Napoli, in quella che è stata la sua Napoli, per ritrovarla profondamente cambiata, peggiorata da un lato, ma fervente di mutamenti in atto, auspici di mutamento. La Napoli dei primi anni Novanta da cui stanno prendendo le mosse movimenti artistici, progetti culturali e politici, più correttamente di politica culturale da esportare nella buona come nella cattiva sorte nel resto d’Italia. Martone in particolare lo fa esibendo croste, immagini ingiallite, umori fetidi, calcinacci e impasti linguistici, influenze e commistioni (Rasoi, la cui versione cinematografica è introdotta da un breve di Pier Paolo Pasolini; Teatro di guerra, 1998, che rimanda al Valentino Orsini de I dannati della terra, 1969, ancora al Pasolini di Appunti su un Orestiade africana, 1970, e in generale alla forma aperta che culminerà nel romanzo incompiuto Petrolio, o infine al Francesco Maselli di Lettera aperta a un giornale della sera, 1970). Una Napoli che già oggi appare preistorica, lontana, non più sostenibile, velleitaria nel suo desiderio di voltare pagina. E che Rosi non può fare a meno di osservare a partire da sé, da una prospettiva ancora più retrodatata, assoluta, implacabile. Dal suo film più celebre, così lontano, così vicino, Le mani sulla città (1963), che trent’anni prima di quella fisiologica incapacità ambientale – diremmo - o sociale, antropologica, prima ancora che politica, e in cui la politica del malaffare diventava lo specchio se non addirittura lo spettro, il sistema operativo, aveva colto l’aspetto immutabile, l’implacabile condanna, il tratto saliente. L’impasse, che come vedremo ipoteca ogni ricambio generazionale e iscrive i cambiamenti dentro un solco preordinato, obbliga il nuovo a specchiarsi nel vecchio, come fa alla fine del romanzo e del film la protagonista de L’amore molesto nel 1995. Obbliga cioè la  trasformazione ad essere ostaggio consenziente della tradizione, una tradizione di lunga durata, in politica come nella cultura, nell’arte, nel teatro e nel cinema. La sequenza culminante, concettualmente più emblematica, di Diario napoletano è infatti quella della proiezione pubblica de Le mani sulla città alla Facoltà di Architettura a Palazzo Gravina, cui interviene l’autore. Il senso della manifestazione è riassunto nel manifesto affisso all’esterno che - si legge esclusivamente nella sceneggiatura - «riproduce delle mani nere che ghermiscono i palazzi della città».  

NAPOLI
1963
LE MANI SULLA CITTÀ
1992
LE NUOVE MANI SULLA CITTÀ?

Si spengono le luci. Il film comincia. L’aspirante assessore Nottola, palazzinaro senza scrupoli, illustra alla classe politica che governa la città la sua volontà di spostare il piano regolatore in una direzione ben precisa, per lui e per la giunta di gran lunga più conveniente. Diario napoletano funziona come un film sul film Le mani sulla città. Dice Nottola: «Eccolo là. Quello è l’oro oggi! E chi te lo dà? Il commercio, l’industria? L’avvenire industriale del mezzogiorno! Sì, investili i tuoi soldi in una fabbrica! Sindacati, rivendicazioni, scioperi, cassa malattia. Ti fanno venire l’infarto con queste cose!». Nel buio una voce commenta: «Eccola qua, la nostra borghesia imprenditoriale!». Ebbene,  già nella sceneggiatura di Diario napoletano i dialoghi del film del 1963 si intrecciavano, si confondevano con i dialoghi di questo nuovo film contenitore e specchio desolato del precedente, e con essi i vecchi protagonisti della scena napoletana con i nuovi. L’enunciatore, due volte autore-enunciatore sia di Diario napoletano che di Le mani sulla città, è anche in campo come personaggio. Il ricorso al lessico specialistico della semiologia e della narratologia si rende in questa circostanza utile. Poiché con Le mani sulla città che appartiene a Rosi di diritto, Rosi si trasforma in narratore dell’intera sequenza, e nel contempo narratario in quanto egli assiste alla (sua) proiezione. Le dinamiche enunciazionali riprodotte, esibite in Diario napoletano attraverso la relazione instaurata tra narratore (il film incarnato dall’autore) e narratari (ancora l’autore, l’ex consigliere Carlo Fermariello e gli altri spettatori) restituiscono in pieno la logica del racconto, certo. Ma soprattutto la strategia di un percorso cinematografico che consente sin d’ora, in questo insospettabile frammento che culmina in un inserto della sequenza che stiamo esaminando, a mettere a fuoco del cinema di Martone le  premesse metodologiche, la posizione storica, la condizione preliminare dentro la storia del cinema italiano. Vale a dire un contesto territoriale nazional-regionale di riferimento in cui il persistere di «mani» consolidate «sulla città», ataviche e sempre «nuove», fa da asse portante all’istanza fondativa e unitaria di rinnovamento di cui Martone è espressione assieme alla realtà artistica da cui proviene. E di cui è il maggiore rappresentante, quasi il coordinatore, la figura di riferimento destinata proprio per le modalità di questa rinascita, ancorata a una tradizione, a un magistero, a un nucleo problematico (Le mani sulla città di ieri che egemonizzano anche l’oggi diventando Diario napoletano) a spingerlo in seguito a interrogarsi sulla storia italiana contemporanea, sulle sue complesse radici, la sopravvivenza di paradigmi, contraddizioni, compromissioni. In pratica, ignorando ciò che effettivamente lascia intendere Diario napoletano, sfuggirebbero la prospettiva, lo stile, le ragioni profonde del percorso martoniano, interamente e fisiologicamente giocato sul doppio binario, sull’incrocio, sulla sovrapposizione teatro/cinema, scelte di autonomia e assunzione di incarichi istituzionali, all’esterno e all’interno del sistema, che è poi un sistema anche di vasi comunicanti e comunicativi. Aspirazione allo stravolgimento e alla rivolta verso lo status quo della critica, del mercato, dei poteri multiformi e variegati e sostanziale accettazione. Opportunità e opportunismo, inscindibili in un concorso di cause ed effetti estremamente complesso che caratterizza molto la società dello spettacolo in Italia. Nessuna divagazione quindi. Dentro Diario napoletano gli spettatori come del resto Rosi in persona guardano Le mani sulla città, riflettendo ciò che fanno parallelamente e contemporaneamente i telespettatori che guardano, dall’esterno, Diario napoletano. Riassumendo: tutti, telespettatori (gli enunciatari), spettatori (narratari) e autore (enunciatore, narratore e narratario) assistono a questa proiezione allusiva di fantasmi mai scomparsi nel momento in cui in Diario napoletano scorrono e rimbalzano dal passato al presente le immagini di Le mani sulla città. Ecco perché non ci sembra affatto un caso che sia proprio di Martone la “voce” tutt’altro che anonima che udiamo in Diario napoletano. Martone, sulla destra, è infatti uno dei due spettatori non qualsiasi (l’altro, a sinistra, è Roberto De Francesco) cui spetta il compito all’interno dell’inserto che spezza la sequenza del capolavoro rosiano del 1963 riproposto nella docu-fiction del 1992 di dichiarare per primo la continuità tra passato è presente. Battuta – lo ricordiamo - già prevista in sceneggiatura, «Eccola qua, la nostra borghesia imprenditoriale!», affidata d’ufficio all’emergente autore di Morte di un matematico napoletano. Il quale la pronuncia senza modificarla troppo: «Questo è come ragiona la nostra borghesia imprenditrice. Ancora oggi!».



Ciò spiega in che modo dal dittico Le mani sulla città/Diario napoletano che descrive un intorno temporale trentennale si evinca come il dopo, ogni dopo, non possa prescindere dal prima. Un aspetto tutt’altro che trascurabile per comprendere la teatrografia e in particolare la filmografia di Martone, che si interfacciano di continuo (lo spettacolo Rasoi diventa nel giro di pochi anni un film come l’allestimento nel 1998 rifluisce in Teatro di guerra), sempre attraversata da umori, situazioni, personaggi di un passato mai rimosso del tutto. Che inquietano o ipotecano il presente, vi si riflettono, stendono la propria ombra sinistra, molesta. Persino la struttura dei suoi film sembra dover tener conto di una molteplicità di apporti, di provenienze, di suggestioni, che perciò non vengono mai completamente linearizzate, ricomposte, strutturate del tutto, gerarchizzate, persino nel mediometraggio Rasoi, l’opera (quasi) seconda, una sorta di passo sicuro, garantito, che sigla una coincidenza e una transizione tra teatro e cinema. Non c’è da sorprendersi se in una filmografia che procede per quadri, tableau vivant, capitoli, episodi, blocchi narrativo-descrittivi contrassegnati da didascalie temporali (Morte di un matematico napoletano) o onomastiche (Noi credevamo), si sia scelta anche come opera terza o seconda e mezzo la trasposizione di un romanzo di incerta attribuzione, dietro la ufficiale titolarità della scrittrice Elena Ferrante, L’amore molesto, in cui la protagonista, Delia,  è una disegnatrice di tavole a fumetti. Pezzi di un puzzle che perciò si presentano – come il film stesso – autonomi, slegati, da ricomporre, come lo stesso quadro generale di quella Napoli vecchia e nuova, che sintetizza con la sua discontinuità la visione martoniana dell’Italia, del mondo, del suo decorso sintagmatico e non paradigmatico fatto di giustapposizioni retroattive, micro/macrostoriche. E di cui Noi credevamo è di gran lunga il sintomo più compiuto, la summa di frammenti sparsi e non facilmente ricomponibili. Una Napoli come laboratorio italiano e centro del mondo già vista in Diario napoletano, dove non poteva mancare la «comparsa/voce» di Martone affiancato da altre contigue presenze provenienti dal nuovo corso napoletano. Una battuta già scritta gli spetta, di diritto.
Essendo stato Rosi allievo di Luchino Visconti, anche Martone, attivo come già Visconti e Rosi sul doppio binario del teatro e del cinema, nel rievocare la storia italiana risorgimentale in Noi credevamo, inseparabile dalla teatralità ostentata e rivendicata come messa in scena e in campo sia in Teatro di guerra che in Capri-revolution, non può fare a meno di ripercorrere il tracciato viscontiano di Senso (1954) e del Gattopardo (1963, attenzione: l’anno di Le mani sulla città). Non può cioè fare a meno di restituire dentro la rappresentazione filmica lo spazio della rappresentazione scenica, ovvero lo spettacolo teatrale cui i protagonisti assistono, come già nell’incipit di Senso. In teatro lo spazio è la scena, mentre al cinema è il campo (visivo), inteso da Martone anche come campo/teatro di guerra, sia pure con la guerra fuori campo, (in)visibile, come in Capri-revolution, o fuori scena, dunque altrettanto (in)visibile, come in Teatro di guerra. In questa logica di concomitanze belliche, di teatri e set di guerre, in Teatro di guerra entrano in gioco, quindi in campo, i retroscena della macchina teatrale, che Visconti sempre in Senso aveva affidato all’incipit. O ancora prima, coadiuvato dal giovane Rosi, in Bellissima (1951), smontando il dispositivo filmico, decostruiva, smitizzava, relativizzava la realtà ostentata dalla macchina cinema del neorealismo.
Dal giovane Rosi de La terra trema (1948) e Bellissima, con Visconti, al giovane Martone di Diario napoletano, con Rosi, il passaggio di consegne è d’obbligo. Anche per motivi letterari ricorrenti. Sulla falsariga di modelli romanzeschi che vanno da De Roberto a Tomasi di Lampedusa, da Verga a Pirandello, molte incursioni nella protostoria, nella storia e nell’antistoria risorgimentale di autori provenienti dal neorealismo come Visconti in Senso e Il Gattopardo e in Viva l’Italia (1960) e Vanina Vanini (1961) di Rossellini - preferito da Martone - senza contare il Rosi che co-dirige Camicie rosse (1952) ufficialmente di Goffredo Alessandrini, puntavano anche a una rilettura distanziata, appena dissimulata e mimetizzata delle asperità, dei ristagni, dei tradimenti della Liberazione, esattamente come in Capri-revolution si vogliono scoprire gli altarini di venti di guerre odierni, nell’aria, malauguratamente prossimi venturi. Ciò spiega perché Martone in Noi credevamo, quindi ne Il giovane favoloso, senza che questa affermazione suoni riduttiva, al contrario, abbia recuperato Visconti e Rossellini. E riconsiderato alla luce di Uomini contro, con Capri-revolution abbia recuperato Rosi. L’autore agisce cin continuità, sa di non potersi sottrarre a questo imperativo della continuità, di non poter sciogliere il suo debito con il passato. A prescindere dal proprio contributo personale, dall’apporto individuale, dalla cifra d’autore, egli non può ignorare che è arduo chiudere la partita con un passato diretto o etero-diretto, affrancarsi dai condizionamenti, dalle scuole di pensiero, le tante/poche scuole di pensiero, le consorterie intellettuali di ieri, di oggi, pronte a promuovere e a disconoscere in ogni istante, a dare o a negare il beneplacito, il consenso favorendo il supporto finanziario mediante il consenso culturale e i premi ad ogni nuovo film: un retaggio marginale ma effettivo di una storia bloccata che emblematicamente nei suoi film, a livello sociale, politico, psicanalitico, antropologico, resta sempre aperta, diuturna, torbida, sporca, maleodorante come i vicoli. Oscena come le suburre. Di difficile interpretazione. Sottratta alla verità, alla pulizia, alla giustizia, alla chiarezza, alla trasparenza. L’amore molesto sul piano privato, edipico accentua molto il tema della dipendenza dalla storia, sia nell’aggiungere nel finale la violenza sessuale simbolica, generazionale che l’ex bambina Delia allettata ha subito dall’anziano pasticcere allettante e traumatico, sia quando trasforma in una battuta dello zio Filippo il riferimento del romanzo alla «marmellata di more bianca di muffa ma secondo lui ancora buona». Nel film l’uomo la incalza così: «Se levi la muffa sopra la parte di sotto è squisita». La muffa che non impedisce alla marmellata di essere commestibile, addirittura «squisita», rende molto bene l’idea di questa storia bloccata, ingrata, controllata, dolorosa, a livello personale, psichico e collettivo. La storia con cui Martone si ritrova a dover fare i conti, e che perciò va digerita come marmellata «ammuffita», affrontata per gradi, strati, nature morte sparpagliate, partecipanti di una raffigurazione sulle quinte e dietro le quinte, non fa differenza. Raffigurazione complicata allora (ininterrottamente dal neorealismo al realismo indiziario di Rosi) come ora (dai primi anni Novanta). Complicata da restituire - se non per difetto - a una integrità conoscitiva e a una presunta uniformità originaria. L’ipoteca del passato, dei suoi nodi irrisolti, dei suoi segreti, scheletri nell’armadio della compagine progressista, aperta, anti-istituzionale, colta (il partito comunista di Morte di un matematico napoletano, la nuova borghesia de L’amore molesto, i teatranti di Teatro di guerra, i repubblicani di Noi credevamo, i letterati de Il giovane favoloso, gli utopisti e il medico interventista di Capri-revolution) pervade le sue opere. Morte di un matematico napoletano è attraversato dall’accademico indolente Renato Caccioppoli, ex militante comunista di spicco alcolizzato, che parla e si comporta da consapevole morto il quale alla fine degli anni Cinquanta non può fare a meno di camminare e incarnare l’impossibilità di un vivere presente che prende forma definitiva nella Ginestra napoletana, recitata e rappresentata nel finale apocalittico ed eroico ad un tempo de Il giovane favoloso. Quindi, senza appelli, tra contraddizioni di ogni tipo in Capri-revolution. Il contesto che investe completamente Noi credevamo, Il giovane favoloso e Capri-revolution, vertici di una triangolazione storico-regressiva, o anti-storica, è persino diverso e più allarmante di quello terminale e fin troppo oggi d’attualità di Morte di un matematico napoletano, dove il comune fronte antifascista fungeva da base comune per una improbabile, retorica, commemorativa, funerea, ricerca a venire di una «rivoluzione in grande» del «superamento delle contraddizioni del presente». Un contesto dunque retrodatato caratterizza i film più recenti di Martone, a partire da Noi credevamo, che guarda provocatoriamente in avanti, in maniera neanche troppo velata, su due questioni nazionali irrisolte, spesso congiunte, che hanno paralizzato e paralizzano il presente, ingessando in valore assoluto anche il futuro, ogni ipotesi di futuro. A dimostrazione, ove mai ce ne fosse bisogno, che questo rapido excursus sull’opera di Martone può infine essere sintetizzato in una idea forte, che volentieri prendiamo in prestito da Deleuze, il quale la applicava al cinema di Minnelli, quindi alla reiterazione delle guerre mondiali a cominciare da quella definita “Prima” con il non-senno di poi, la dissennatezza connessa a tutto ciò che si elabora e pratica ex post. «Ci sono moltissimi registi – dichiara Deleuze - che non hanno avuto alcuna idea. Ma le idee sono qualcosa di ossessivo. Vanno, vengono, si allontanano e poi prendono diverse forme e attraverso queste forme, per quanto diverse, diventano riconoscibili. Penso a un autore di cinema come Minnelli. Si può dire che in tutta la sua opera - forse non in tutta, ma prendo questo esempio – si chiede esattamente: la gente sogna, tutti sognano - ne abbiamo parlato molto, è banale dirlo - la gente sogna, in certi momenti. Ma Minnelli pone una questione molto strana, che credo gli sia propria: che cosa significa essere imprigionati nel sogno di qualcuno? E va dal comico al tragico all’abominevole. Cosa vuol dire ad esempio essere presi nel sogno di una ragazza? Possono venir fuori delle cose terribili dall’essere presi nel sogno di qualcuno. Essere presi nel sogno di qualcuno: forse è l’orrore allo stato puro. Minnelli prende ad esempio un sogno: cosa vuol dire essere prigionieri dell’incubo della guerra? E penso a I quattro cavalieri dell’Apocalisse, che è magnifico, in cui non affronta la guerra in quanto tale, non sarebbe Minnelli. Affronta invece la guerra come un grande incubo. Cosa significa essere prigionieri di un incubo? Cosa significa essere presi nel sogno di una ragazza? Sono le sue opere musicali, le sue famose opere musicali in cui Fred Astaire, credo, o forse Gene Kelly, sfugge alle tigri, alle pantere nere, non ricordo bene. Essere presi nel sogno di qualcuno: direi che questa è un’idea. Eppure non si tratta di un concetto. Se Minnelli avesse proceduto per concetti avrebbe fatto della filosofia, ma ha fatto del cinema».


   
Il problema è, appunto, chiedersi «che cosa significa essere imprigionati nel sogno di qualcuno». O chiederlo a Martone, il quale ce lo ha spiegato meglio di chiunque ne Il giovane favoloso, servendosi del transfert leopardiano. In gergo, quello dei critici, degli storici e dei teorici del cinema, il film si richiamerebbe alla categoria del “biopic”: termine ricavato dalla contrazione delle parole inglesi che compongono l’espressione “biographic picture”. Che è poi l’equivalente dell’italiano film biografico. Ma in Italia, nelle recensioni, nei libri o nei saggi nessuno più li definisce “film biografici”. Per comodità, ossequio al gusto corrente della sintesi estrema, unito a una certa predilezione per la prassi anglofona, ecco che anche da noi si usa definire “biopic” film come Il giovane favoloso. Ma non tutti i “biopic” sono uguali. Alcuni fanno eccezione. E molto discutere. Come era avvenuto in tempi recenti con Vincere (2009) di Marco Bellocchio, essi assumono da subito un carattere estremamente singolare, trasformandosi in biografie sotto specie audiovisiva, sì, ma di una nazione, dei suoi complicati e altrimenti indicibili recessi. Opere insomma non proprio retrodatate. Non per niente il “biopic” di Martone, chiamiamolo così, ha scatenato un coro di pro e contro, comprensivo anche delle infinite sfumature intermedie di giudizio, per lo più basate sulla pertinenza della messa in scena e in quadro di quel monumento nazionale che è Giacomo Leopardi. Dunque un coro ragionevolmente e per motivi anche abbastanza legittimi, quand’anche scontati. L’autore li ha di sicuro previsti o almeno messi in conto, persino capitalizzati, se ha scelto di mescolare la vita e le opere di Leopardi, senza privilegiare la tormentata vita a rispetto alle opere, né permettendo che queste ultime subissassero il percorso strettamente biografico ed esistenziale. Percorso che infatti assume più il senso di un decorso nazionalpopolare, se non addirittura impopolare in ultima analisi. Il “suo” è un Leopardi particolare, “regressivo”, in aperta contraddizione con il parametro ideologico adottato nell’immediato dopoguerra dalla critica letteraria, a partire dal celebre, fondamentale saggio di Cesare Luporini, Leopardi progressivo, contenuto nella raccolta Filosofi vecchi e nuovi del 1947. La prassi seguita da Martone, che già nel suo primo lungometraggio, Morte di un matematico napoletano, aveva attinto alla (fine della) vita per molti versi esemplare di un personaggio reale, il matematico suicida Renato Caccioppoli,  deve tuttavia fare i conti con il fantasma cinematografico leopardiano. Proprio così. Un fantasma polivalente e transitivo per il grande schermo. Un fantasma perennemente enunciato, evocato, suggerito ma mai realizzato in modo compiuto e definitivo nella storia del cinema italiano, che idealmente si imparenta con i personaggi astratti, assenti o compresenti di Capri-revolution. Detto meglio, con Il giovane favoloso, sulla falsariga di un Risorgimento alquanto sui generis di Noi credevamo o di quell’alba di Grande/Prima guerra di Capri-revolution, che si collocano ai lati come personaggi di un polittico, vediamo come Martone abbia chiuso e riaperto un cerchio inaugurato dai numerosi, mimetizzati o marcati richiami leopardiani, desunti o affiorati di volta in volta dalle Operette morali, dai Canti, dallo Zibaldone, a partire da Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggiere (1954) di Ermanno Olmi, Vaghe stelle dell’Orsa di Visconti (1965) e I pugni in tasca (1965) di Bellocchio, fino a Il prato (1979) di Paolo e Vittorio Taviani, La messa è finita (1985) di Nanni Moretti e I cento passi (2000) di Marco Tullio Giordana. Secondo un codice più o meno segreto, ma coerente, questi film e soprattutto i rispettivi autori hanno adoperato Leopardi, i suoi versi, ovvero il suo registro lirico, nonché il suo “tedio”, la visione sconsolata del presente storico, come traccia riproducibile per una rilettura critica e sottilmente provocatoria  e per un approccio controcorrente all’esistente. A largo spettro. Scegliere una citazione leopardiana, inserirle nel tessuto dialogico del film, investendo all’occorrenza la componente visibile del titolo adottato, è stata la strategia prevalente. C’è stato come un tacito accordo di accedere per gradi e cerchi concentrici all’universo leopardiano che ha infine imposto a Martone di giungere in dirittura d’arrivo in maniera sistematica e globale costruendosi su misura l’impianto di Il giovane favoloso. Questa volta Leopardi non è più il soggetto occulto, ancorché dichiarato, ma la fonte diretta. Soprattutto qui non si attinge più alla sfera della testualità leopardiana, bensì alla sua corporeità, alla sua sfera intima. Seppure giocando molto e allusivamente sulle apparenze per spostare il discorso su un piano di rappresentatività allargata. Il “caso” Leopardi come allegoria di una fase contingente e con ogni probabilità permanente di un divenire inibito, bloccato, mortificato del nostro presente storico, culturale e politico? Conoscendo l’opera di Martone, è di questo che sostanzialmente si tratta.
Ciò nonostante, la prima, elementare considerazione da fare su Il giovane favoloso potrebbe essere riciclata o presa in prestito da Alberto Moravia, che a proposito di un altro “biopic” eccellente, non meno controverso, cioè  Al di là del bene e del male (1977), scrisse che l’autrice, Liliana Cavani «è stata accusata di aver presentato un Nietzsche in pantofole, cioè senza filosofia e privato».  Ma Moravia era oltremodo convinto che una simile «accusa sarebbe valida se Nietzsche le pantofole, tanto per continuare la metafora, non avesse mai cercato di mettersele, ossia non avesse mai tentato, secondo la nota sentenza di Marx, di far scendere la filosofia dal cielo sulla terra, per cambiare il mondo». Ebbene, l’immagine delle “pantofole” calza molto bene anche all’operazione compiuta su Leopardi da Martone, che nel suo film predilige appunto la chiave confidenziale, la dimensione privata, la misura umana. L’evidenza fisica, che lo porta al di là di ogni eufemismo a fare i conti con un corpo sempre più ingrato, curvo, ripiegato su se stesso, conferma come il “ritratto” non riguardi tanto il pensiero o l’opera letteraria e filosofica del poeta recanatese, quanto l’ostentata e quindi esemplare condizione regressiva di un soggetto a rischio, la cui unicità e piena riconoscibilità appunto assurge a sintomo manifesto, tangibile, esasperato di un malessere nazionale fin troppo contemporaneo e intellegibile. La “delusione storica”, poiché di leopardiana, illustre memoria, e facilmente riconducibile al suo magistero, da Il giovane favoloso emerge in tutta la sua drammatica, sconcertante, polemica attualità. Questo non vuol dire che l’operazione compiuta da Martone comporti un uso pretestuoso, epidermico, distratto della figura leopardiana. Inequivocabilmente, tenuto conto della libertà interpretativa e  licenza creativa, l’autore cinematografico ha bene in mente un progetto, il suo, che riprende di sicuro la messa in scena del 2011 delle Operette morali, ma risale al film d’esordio, Morte di un matematico napoletano ed è proseguito fino a Noi credevamo. Un progetto di rilettura dell’Italia presente attraverso la maschera di necessità molto riconoscibile del passato. Il travestimento leopardiano, ultimo in ordine di tempo, così come quello risorgimentale immediatamente precedente, consentono a Martore di affrontare, mediante un abile procedimento di copertura alta, illustre, inoppugnabile,  i nodi e i problemi strutturali dell’oggi, la crisi di un sistema paralizzato i cui effetti collaterali giungono sul terreno culturale e artistico con le sue schermaglie, i suoi indici di gradimento, le sue cordate. Di questa crisi, che assume spesso e volentieri la “forma” esemplificata dalla presenza fisica di un Leopardi sempre più ripiegato su se stesso, oppresso da una Madre/Natura “matrigna” originaria e dominante,  si evincono le origini lontane, certo. Ma è anche vero che l’effetto retroattivo, l’esercizio efficacemente genealogico non presuppone un approccio  ortodosso dal punto di vista storiografico. Né sempre e comunque filologicamente corretto. Il film in fondo è assai semplice. Tuttavia la linearità narrativa adombra una lenta acquisizione di come le premesse di una concezione d’insieme della sventura personale, dunque dell’intuizione lirica di una condizione universale profondamente negativa, sfoci in un processo vistosamente regressivo. Questione di cognizione di causa e di procedimento. La progressione di Il giovane favoloso, scandita da tappe che sono nel contempo esistenziali e geografiche, private e pubbliche, coincide – lo ripetiamo - con una sorta di impianto regressivo irreversibile. In altre parole si assiste a un’evoluzione critica della coscienza civile e morale del protagonista, che evolve di pari passo con la sua involuzione fisica, accentuata a tal punto da divenire sempre più allusiva, emblematica, provocatoria. Perciò questo esemplare, altamente rappresentativo testimone ed giovanile “eroe” nazionale del suo/nostro tempo attraversa lo spazio che e anche o soprattutto quello culturale e politico dell’epoca, snodandosi non a caso dal “natio borgo selvaggio” recanatese alla definitiva presa di coscienza in una cornice partenopea, ben nota all’autore del film, la cui eccessiva connotazione risulta inversamente proporzionale all’impatto allegorico. Nella logica del film, che scorre finché l’infelicità è circoscritta alla suggestiva, reazionaria, tacitamente reattiva e prosaica cornice marchigiana, notiamo come la scoperta dell’Italia tutta, che si rivela strada facendo peggiore, da Firenze a Roma, trovi un epilogo poetica nell’ampio epilogo napoletano. Un epilogo in tutti i sensi fisiologico, che genera un effetto di inarrestabile e sinistra, contestuale paralisi. Lo stile del film recepisce questo smarrimento della spinta propulsiva, in vista di una incombente modalità lirica, degenerativa e statica. Spieghiamoci meglio. Se confrontiamo le scene del segmento recanatese del film, cui coerentemente fanno seguito – non soltanto in ottemperanza alle tappe della biografia leopardiana - quelle napoletane, precedute dall’intermezzo romano, ci accorgiamo di come la “trama” tradizionalmente intesa ceda sempre di più il posto ai tableaux. Non per niente Martone, nella “sua” Napoli prediliga una sorta di registro teatrale, chiuso, mostrativo. Quanto di più lontano dal ritmo ascendente, romantico, appassionato della inaugurale, remota Recanati.



Inoltre in questo “biopic” che prepara la strada di Capri-revolution e eredita quella solcata da Noi credevamo, manca un dato fondamentale: la morte del protagonista. Leopardi infatti, dentro la cornice del film, insistiamo: sempre più lirica, ossia defilata dalle premesse romanzesche che ne avevano “movimentato” l’illusione giovanile (che il problema fosse locale e perciò localizzabile sul territorio nazionale), non muore. Non può. La sua morte viene rimossa, cancellata, come un fattore che avrebbe altrimenti confutato l’impianto allegorico generale. Se Leopardi non muore, è perché la sua fine ricondurrebbe il film sui binari consueti del “biopic”, per intenderci: genio e sregolatezza, talento e infelicità congenita. Quindi di un destino già scritto, singolare, non collettivo. Martone, che attraverso la parabola leopardiana, siglata da una traslata retrocessione/ritiro del corpo, e che pertanto non può essere contrassegnata da una morte circoscritta, individuale. Rispetto a quanto con ogni probabilità è accaduto istintivamente o scientemente ai non pochi grandi registi italiani che hanno sfiorato o si sono parzialmente ammantati della diuturna ombra leopardiana, a Martone preme invece fare di questo Leopardi di copertura una cartina di tornasole. Cosicché lo adatta alle istanze polemiche compenetrate con una denuncia  fin troppo dissimulata e perciò tanto più scandalosamente contemporanea. Leopardi si dà a vedere come il sintomo incarnato, affetto da una deformità progressiva, cioè da una regressione concettuale, che rispecchia l’impossibilità odierna di guardare avanti, di intravedere una soluzione alla prudente mediocrità e al fatale status quo. In pratica, seguendo le modalità dello svolgimento al contrario predisposte da Il giovane favoloso, film prima di tutto, mutuato dalla biografia letteraria leopardiana, ma ad essa non subalterno, è possibile accorgersi del pericolo insito nello spirito di apertura di un “giovane”, condizione contrassegnata tragicamente come “favolosa”, ergo assai poco reale o realizzabile.  Il “suo” Leopardi è una vittima designata, la cui sensibilità, l’ingegno, la spinta conoscitiva vengono conculcate invece da un modello trasversale di società del consenso generalizzato, retta da un sistema inveterato di ideologie, sistemi di pensiero, strutture istituzionali stagnanti o meccanismi di potere pronti a reprimere, tarpare ogni forma di dissenso, effettiva potenza creativa. Come dire, anche in estrema, drastica ed efficace sintesi sociologica: tempi duri per i “giovani”. Tanto peggio se “favolosi”. O malauguratamente ritenuti tali, come la protagonista ante litteram di Capri-revolution.
Il principio, la guerra del principio, la principale e allora più “grande” guerra si saldano alla fine. Una morte, individuale, chiamata in causa nel film d’esordio, diventa spettro collettivo, obra ammonitrice, proiettata verso il tempo, avanti e indietro. E Martone tornare sui passi di Rosi, riconoscendo con lealtà il valore di un sodalizio “napoletano” di lunga durata. Da Le mani sulla città e Diario napoletano a “le mani sull’isola” e sul pianeta intero di Capri-revolution la visione è limpida, immediata, ineludibile.

     

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