Andrea Bruni
«Ci sono moltissimi uomini che sono più infelici di te: questo non ti dà un tetto sotto al quale abitare, d’accordo, ma la frase è sufficiente perché ci si possa trovare riparo durante un temporale»
(Georg Christoph Lichtenberg)
«Ad una domanda circa le sue impressioni sul cinema, Kafka rispose: “È rapido. Pa! Pa! Pa! Pa! Pa!”. Per lui non c’era tempo per pensare a quel che accadeva. Per quello sono arrivato a fare un altro tipo di cinema, un po’ più ragionato, interiore, profondo...»
(Manoel de Oliveira)
Os Ultimos Temporais
La quiete mozartiana che solitamente domina, con carezze di seta, il Valhalla dei Registi viene – ex abrupto – contraddetta da una nota dissonante, improvvisa: trascinato da un ombrellino magrittiano, sta per giungere Manoel de Oliveira. Il Gran Consiglio (nel Valhalla dei Registi non esistono gerarchie, ci mancherebbe) decide di inviare come responsabile dell’accoglienza, l’ispanico Luis Buñuel che – incredibile dictu – risulta emozionatissimo (abbranca a man bassa i sigari che le discinte fanciulle di “Mother” Gin Sling – notoriamente non Ona Munson, ma Marlene Dietrich con una parrucca progettata da Piranesi – donano, sempre sorridenti, agli ospiti del Valhalla). Fumando come un turco, Buñuel si reca sul punto prestabilito per l’atterraggio. Ed ecco, col suo ombrellino di carta di riso, scendere dal cielo, trasporto da una brezza primaverile, Manoel De Olivera, proprio ai piedi del regista di Un Chien Andalou.
- È sempre un piacere conoscere un vero zoologo, un grande entomologo – sussurra con un evidente sorriso sulle labbra, De Oliveira – ho in particolar modo apprezzato i suoi studi sugli scorpioni, sulle giraffe e sugli ambasciatori.
È la volta di Buñuel quella di abbozzare un’ombra di sorriso:
- Oh, ma io ho sempre ripreso solo quello che mi piaceva, senza troppe sovrastrutture…
- Anche l’orso dell’Angelo sterminatore?
- Anche quel bendetto orso…Cosa c’è di più bello di un orso che scorrazza per una villa padronale?
- Ne convengo, ne convengo… – replica De Oliveira; Buñuel gli offre un sigaro che il regista di Francisca garbatamente rifiuta.
- Se non erro, però – è la replica del regista spagnolo – Anche lei ama molto gli orsi.
- Dipende dal tipo di cottura – è l’enigmatica risposta di De Oliveira…
Buñuel sbuffa dalle nari spaccate, da boxeur, una nuvolaglia di fumo e prendendo per il braccio il collega portoghese, dice:
- Se ora però, almeno, accetterà un Martini come solo io so preparare qui, vorrei chiacchierare un po’ con lei di galline
- A patto che non lasci entrare i gatti – dice De Oliveira e, in un gioco di gran pacche sulle spalle e risate i due si allontano lungo un viale tappezzato di foglie autunnali.
Gentili romanticismi al vetriolo
«Chi vorrà giudicarmi da questo libro, e giudicandomi dispererà di me, sbaglia: chi vorrà attribuirmi un grande talento, anch’esso sbaglia. Non è falsa modestia, perché contro coloro che mi accuseranno di metagrabolizzare vi è la mia convinzione di poeta, e una risata»
(Pétrus Borel, detto il licantropo)
Per entrare nella verbosissima, sontuosa, Wunderkammer di Manoel de Oliverira, gran sacerdote della Paola (ma anche – come cercheremo di dimostrare – raffinatissimo Maestro di leggerezza e crudele arguzia) sarebbe necessaria la prosa del suo conterraneo Alvaro do Carvalhal, sorta di imberbe Lord Byron, seguace del Romanticismo più frenetico e verbalmente eccitante. Non abbiamo dubbi: parafrasando le parole di do Carvalhal (autore di un raccontino, microscopico, ma più delizioso della bellissima Elizabeth Siddal nei panni di Ofelia, o di già adagiata nella sua bara) potremmo dire: il mio mondo è amante del sangue blu: adora l’aristocrazia, il bel mondo coi suoi riti di porcellana. Lo spettatore dovrà pellegrinare con me nell’alta società, e seguirne – muto – ogni capriccio: dovrò portarlo a uno o due balli, fargli percorrere i corridoi ciechi di un convento demoniaco, invitarlo ad una crociera per il mondo conosciuto, con tanto di piccola apocalisse compresa nel prezzo, e suscitare il suo interesse con cornucopie di misteri, di amori e gelosie che affollano quei bellissimi tomi tanto amati dai nostri avi…
Nel 1988, accettando la sfida del compositore João Paes – sorta di perverso Lorenzo Da Ponte – di realizzare un film “operistico”, con tanto di libretto ispirato proprio a Os Canibais (I cannibali) del disgraziatissimo dandy do Carvalhal, De Oliveria non fa una piega, accetta la sfida, realizzando uno dei suoi film più ostici, in grado di donare – agli spettatori in grado di superare la prima ora di chiacchiere da salotto gorgheggiate – una seconda parte ove lo humor più nero e sulfureo, prende lentamente forma come un Golem da addestrare.
In un eccitante gioco di specchi deformanti ed echi di cripta, da grande letteratura gotica (E.T.A. Hoffmann in primis), nel momento in cui il Visconte d’Aveleda (il poi “fedelissimo” Luìs Miguel Cintra) svela alla virginale Margarida (la futura “musa” Leonor Silveira) la propria natura di automa, deflagra il Genio, pittato di Nero, ma pur sempre genio. Sembra quasi che de Oliveira abbia voluto mettere alla prova i propri spettatori sottoponendoli ad un’ora di chiacchiericci sfiatati, da Gran Soirée in avanzato stato di decomposizione, prelevati dagli scarti de Il Gattopardo… E poi, in un crescendo rossiniano (anche se per solo violino), tra suicidi rituali, arti meccanici, distratte colazioni cannibaliche, e borghesacci che si tramutano in maiali (ma Circe non ne ha colpa: qui siam più fra le grinfie acuminate di Mammona) il grande regista portoghese sembra davvero rendere omaggio all’iconoclastia di Buñuel, osservata attraverso binocoli grandangolari.
Il Sorriso del Grande Tentatore
San Cipriano d’Antiochia, vescovo e martire sotto Diocleziano, agli inizi del IV secolo scrive un libello, Le confessioni ove – incredibile dictu – prima di Goethe, di Marlowe e di Caldéron de la Barca, inventa il mito faustiano, e si sofferma sul materico, tangibilissimo, fascino del Diavolo. Quella di Cipriano è una vera e propria eversio teologica. Cipriano, dei demoni giunge a comprenderne l’impotenza, l’imposssibilità di agire come (un) Dio. Al tempo stesso, però, dice molto chiaramente che anche una natura pervertita può avere una sua componente “angelica”, non priva di fascino, motore di Desiderio. Ne I misteri del convento (1995) De Oliveira sembra realmente sondare la componente arcaica, primigenia del Maligno, col suo strascico di vacuo fascino. Immagini di un convento mefistofelico; anfratti, cunicoli che si spalancano dalle tenebre, come orbite vuote di martiri, porte che sbattono e palpitano al pari che di un vaudeville, scritto da Feydeau agli Inferi. Questo per dire che – fra i Registi – De Oliveira era una sorgente d’acque non certo malmostose da cui attingere ancora, per sempre anzi.
«Conte, lascio entrare i gatti?»
La passeggiata di Buñuel e di de Oliveira continua quieta, fra banchi di nebbia e fondali di cartapesta. All’improvviso, col suo goffo chiocciare, una gallina passa dinanzi a loro. De Oliveira la osserva divertito, il Maestro aragonese pure. Il papà di Viridiana si concede una manata sulle gracili spalle del nuovo amico:
- Scommetto che ha sognato quella vecchia porcona della Deneuve, eh?
- Forse, ma le posso assicurare di essere fedelissimo alla mia amata sposa.
Filmografia
Bella di giorno (Belle de jour) (Luis Buñuel 1967)
Francisca (Manoel de Oliverira 1981)
I cannibali (Os Canibais) (Manoel de Oliverira 1988)
I misteri del convento (O Convento) (Manoel De Oliveira 1995)
Il Gattopardo (Luchino Visconti 1963)
L’angelo sterminatore (El Ángel Exterminador) (Luis Buñuel 1962)
Un cane andaluso (Un Chien Andalou) (Luis Buñuel 1929)
Viridiana (Luis Buñuel 1961)