Alberto Libera

altPer Aristotele il concetto di mimesis – inteso come impulso a riprodurre – caratterizza l’uomo. Per Ricoeur, la mimesi è contemporaneamente strumento di comprensione, configurazione e infine ri-creazione.
Una peculiare tipologia di mimesi archeologica è il substrato da cui origina Inherent Vice, tanto nelle pagine di Thomas Pynchon quanto attraverso lo scorrere dei fotogrammi dell’omonima trasposizione di Paul Thomas Anderson.

L’ottavo e fino ad oggi penultimo romanzo del grande e misterioso narratore postmoderno si presenta infatti, ad un primo livello di lettura, come una vera e propria decalcomania – nei contenuti e nella forma – della letteratura hard-boiled dei maestri Dashiell Hammett e Raymond Chandler (incrociata, va detto, con le pulp stories di Erle Stanley Gardner, i prolungati detour losangelini del L.A. Quartet di James Ellroy e l’umorismo hippie, surreale e stralunato di un film come Il grande Lebowski dei fratelli Coen). Un atto d’amore nei confronti di un canone narrativo ormai mitizzato, lo stesso alla base del celebre romanzo Triste, solitario y final dello scrittore argentino Osvaldo Soriano. Fu proprio Soriano – nel suo saggio Non si muore di solo piombo – ad attestare che il romanzo poliziesco di marca hard-boiled si affermò in primis come contestatore dell’ideologia conservatrice, da tacita maggioranza, sottesa alla tradizionale letteratura mystery: «Portatore dell’ideologia imperante, del razzismo, il romanzo poliziesco proponeva sempre la farsa di un enigma» (Soriano 1983, p. 71).

Come il Philip Marlowe di Chandler, come il Sam Spade o l’anonimo detective “Continental” di Hammett, anche il Larry “Doc” Sportello di Pynchon è un private-eye, figura a margine del tessuto sociale, vero e proprio drop-out dotato di un personalissimo e ineliminabile senso etico/morale incapace di fronteggiare i mutamenti di una società sempre più ambiguamente auto-collocatasi al di là del bene e del male. Un «personaggio archetipico e messianico» – scrive Sergio D. Altieri – «uno spettro […] (che) dall’alba della coscienza umana [...] continua ad affrontare in modo assurdamente impari pericoli immani, usando le poche armi disponibili, schierandosi sempre contro nemici troppo potenti e troppo subdoli.» (Altieri in Orsi 2005, p. 87)

Doc Sportello è un hippy-flâneur che si muove come un fantasma nella Los Angeles reaganiana1,drug-addicted (mentre il detective degli anni Quaranta era un etilo-dipendente patologico) dalla percezione alterata. Mutuando uno stilema dal genere di provenienza, il romanzo sembra essere costantemente scritto in semisoggettiva: devianze lisergiche e onirismo costituiscono una dimensione continua2 e il tempo pare oggettivato croni-storicamente solo dalle telecronache delle partite dei playoff di basket dell’estate 1970. Attraverso il ruolo di narratrice, sarà il personaggio di Sortilège, nel film, a fungere da metteur en ordre, con il suo tentativo di ricostruire per lo spettatore la babele di eventi originata dall’improvvisa ricomparsa di Shasta Fay, ex fidanzata di Doc e punta dell’iceberg di un’intricatissima vicenda che vede coinvolti, tra gli altri, un magnate tossicomane, motociclisti nazisti, killer a contratto, musicisti surf-rock, agenti federali e – come si vedrà – un misterioso conglomerato di evasori fiscali, spacciatori d’eroina, speculatori, marinai e dentisti conosciuto con il nome di Golden Fang. Una vicenda che finisce progressivamente per esacerbare un topos tipico della letteratura hard-boiled: la linea di confine tra verosimile e inverosimile, tra logico e illogico, tra «paranoia e fiction» (Thomas Jones), tra reale e mitologico salta definitivamente.

Il genere di partenza, attraverso un procedimento tipicamente postmoderno che è tanto di decodificazione che di ricodificazione, viene quindi ibridato da Pynchon con un groviglio prosodico di riferimenti. Si va dalla mitologia (il nome Shasta fa riferimento al leggendario continente sommerso di Lemuria; quello di “Bigfoot” Bjornsen rimanderebbe all’epica della Terra di mezzo di Tolkien3) alla ghost story (la misteriosa imbarcazione chiamata anch’essa Golden Fang pare una re-incarnazione dell’Olandese Volante), dalla cronaca (le rivolte di Watts, gli omicidi perpetrati dalla setta di Charles Manson) al cinema (il campionario di film e attori citati è molto ampio) fino all’encausto meta-bibliografico (la vita come caos entropico, la ronde di personaggi come in Vineland, il complottismo paranoide – qui sommamente personificato dalla figura di Nixon – e survoltato de L’arcobaleno della gravità e de L’incanto del lotto 49, il capitalismo americano come forma di schiavitù già indagato alle radici in Mason & Dixon) e ai riferimenti biografici (Pynchon visse sulla propria pelle il fallimento delle utopie sessantottine).

altDa un punto di vista tanto metaletterario quanto metacinematografico, l’irruzione ex abrupto di Shasta Fay congiunge Inherent Vice con Il lungo addio di Chandler/Altman: come Terry Lennox per Philip Marlowe, Shasta riaffiora nella notte direttamente dal passato del detective e si trasforma nel MacGuffin di una concatenazione inestricabile di eventi concentrici, di plot e subplot che spuntano continuamente come rizomi.
Non è mistero, infatti, che Il lungo addio cinematografico sia una delle fonti cui si è attenuto Paul Thomas Anderson per trasporre su grande schermo il romanzo: se Pynchon si rifà – come detto – alla prosa e alle circonvoluzioni sinottiche degli Hammett e dei Chandler, Anderson accorpa la Götterdämmerung del genere de Il lungo addio all’hard-boiled stralunato e postsessantottino di Moses Wine detective, il fuoco di fila di battute, eventi e personaggi de Il grande sonno di Howard Hawks alla replica di situazioni topiche della commedia slapstick e screwball. Gli anni Sessanta/Settanta e i Quaranta si amalgamano senza soluzione di continuità: se automobili e vestiti sono filologicamente sixties, alcune scenografie provengono smaccatamente dagli anni Quaranta. Basti pensare per esempio al décor pacchiano della Golden Fang Enterprise e dello studio del dottor Blatnoyd: una combinazione di tappezzeria multicolore e oggettistica bizzarra che pare uscita direttamente dalla penna di Chandler4.

Non v’è dubbio alcuno che, adattando Inherent Vice, Anderson non fosse interessato esclusivamente alla possibilità di produrre una copia conforme di estetiche e modelli passati. Come suggerisce una recensione del romanzo ad opera del già citato Thomas Jones ed emblematicamente titolata Call It Capitalism, il regista di Magnolia ha trovato, in questo modello letterario, terreno fertile per implementare linee e percorsi teorici già indagati nei film precedenti. In particolare, Inherent Vice permette ad Anderson di completare il tracciamento di quella cosmologia del capitale (e del suo rapporto con il corpo) che – anticipata da Boogie Nights – è stata delineata nei precedenti Il petroliere e The Master.
Se inizialmente in Boogie Nights il corpo appare come il luogo e il tempio del capitale, con il prosieguo del film dovrà fare i conti con le direttive imposte dal desiderio e dalla necessità, leggi immanenti che trascendono la corporeità stessa. I corpi dei protagonisti cambiano con il passare del tempo, vengono corrotti dalle droghe, si sformano e raggrinziscono progressivamente, le loro performances diventano inadeguate a soddisfare le logiche comandate dall’assetto neoliberista.
Già in Boogie Nights, quindi, il corpo è proprietà convertibile, bene liquidabile.
Il petroliere5 che come Mason & Dixon di Pynchon indaga le origini del capitalismo made in U.S.A., accostando emblematicamente la scoperta del petrolio all’apparizione del monolito-guida kubrickiano – invece, mette in scena il paradosso (più che la dicotomia) di corpi ferini e sudosi che sembrano già appartenere a dei fantasmi o a degli spettri eterodiretti, schiavi di pulsioni ataviche e poteri metafisici. Lo dimostrano i neri, i marroni polverosi e le penombre che informano la fotografia “horrorifera” di Robert Elswit.

In The Master, infine, i corpi – prigionieri di un sistema panoptico (per Foucault il capitalismo stesso è concepibile proprio come una struttura panoptica) che li controlla ovunque – sono come farfalle intrappolate in una gabbia che cercano di autodistruggersi, diventare granelli di sabbia. Il guru Lancaster Dodd indottrina il protagonista Freddie Quell lasciandogli sbattere la testa contro le pareti di una stanza, il mare è claustrofobico e opprimente come le asettiche pareti di cemento armato di una prigione.
Con Inherent Vice, ecco che Anderson avvicina per la prima volta il corpo alla sua futura smaterializzazione. Il capitalista Mickey Wolfman scompare e per gran parte del film (e del romanzo) si astrae divenendo quasi una figura extrafisica che guida le strade senza perché degli attori di questo girotondo. La medesima ineffabile Golden Fang è incarnazione fantasmatica del capitalismo stesso: struttura senza volto (e senza corpo) di cui sono visibili solo le mille diramazioni tentacolari (una misteriosa barca, un cartello di spacciatori, un sindacato di dentisti/evasori fiscali, un centro di disintossicazione ecc.).

altDa un punto di vista strettamente filmico, la panoramica verso l’alto con cui Anderson mostra – attraverso un simbolico contre-plongée – l’edifico della Golden Fang Enterprise è il correlativo oggettivo della carrellata all’indietro che ne Il petroliere accompagna la comparsa del derrick, la torre di perforazione: i rapporti tra l’uomo (Doc in Inherent Vice, Daniel Plainview ne Il petroliere) e i manufatti di controllo del capitale sembrano essersi invertiti, essendo il primo strumentale ai secondi. Il capitalismo appare come un’entità che si autodetermina per aseità6. Nel romanzo, Pynchon opera inoltre un importante riferimento alle New Economies delle tecnologie informatiche e telecomunicative. Nel corso della sua investigazione, lo schlemiel Doc è aiutato infatti dall’amico meccanico Fred che, in anticipo sui tempi, ha intuito le potenzialità di ARPANET, il futuro Internet. Sarà l’etereo a sostituire progressivamente il corporeo.

Per questo, Inherent Vice sembra percorrere i medesimi vettori teorici di uno dei testi capitali degli ultimi anni, vero e proprio double feature di quel Cosmopolis portato sullo schermo da David Cronenberg partendo da un romanzo di Don DeLillo (uno dei pochi intimi amici del riservatissimo Pynchon). Preconizzata dall’improvvisa scoperta di un’asimmetria prostatica epigenetica che squarcia la perfezione del bodyscape divistico e poser dello speculatore Eric Packer, la prossima affermazione di un cyber-capitalismo immateriale trova anche in Cosmopolis le sue avvisaglie in un flusso continuo di sovrainformazioni in cui il dato diventa il soft-power che ridefinisce e regolamenta il reale. È la definitiva metempsicosi dell’ARPANET di Fritz e Doc, trasmigrazione del corpo che si anima in puro metadato.

Per Pynchon come per Anderson, però, esiste un piccolo rifugio dalla grande distopia della società di mercato. È la microcomunità di hippies e fattoni, outsider che vivono in un perenne stato di psichedelia e ipnagogia autoindotte, esiliatisi dalla tirannia della logica, non più condizionati dalle misure convenzionali dello spazio e del tempo, legati ad un ritualismo magico e arcano incomprensibile alla middle class. Afferenti ad un’altra forma di realtà in cui una tavoletta Ouija può condizionare la processione degli eventi o dove le persone riemergono da un’impossibile aldilà come i lemuriani del Monte Shasta. Scrive infatti Thomas Jones:

L’antitesi ideologica alla Golden Fang è il continente perduto di Lemuria, sommerso dall’Oceano Pacifico, che gli hippy (al plurale non dovrebbe essere hippies?) e i surfisti immaginano come un’utopia anarchica, più o meno accessibile a seconda di quanto acido vi capita di aver assunto. Le utopie sono ciò che i paranoici immaginano quando sono coinvolti in un buon trip. Il guaio è che non è semplice distinguere la paranoia positiva da quella negativa ed è impossibile distinguere da quale parte stia chiunque, compresi noi stessi. Con più profondamente si esamina la lotta tra utopia anarchica e capitalismo totalitario – che è anche uno dei fili tematici di Contro il giorno (2006) – con più essi sembrano essere interdipendenti7. (Jones 2009, pp. 9-10)

altQuella degli hippies è un’utopia che ha la valenza di una famiglia. E, in fondo, l’anelito alla (ri)composizione di un nucleo famigliare è uno dei grandi temi che percorrono la filmografia di Paul Thomas Anderson fin dai tempi di Syndey. Una famiglia sempre cercata, spesso trovata e quasi mai mantenuta: i pornografi affratellati di Boogie Nights vengono soverchiati dal passaggio de-fisicizzante alla video age, il legame tra il padre e il figlio adottivo de Il petroliere è spezzato dalle logiche concorrenziali, la simbiosi tra Freddie Quell e Lancaster Dodd è sfaldata dal superamento della logica servo/padrone. Per la prima volta dopo Ubriaco d’amore, Anderson sceglie un finale – che significativamente si discosta da quello del romanzo – che sembra sancire una forma, seppur precaria e transitoria, di ricomposizione. È un finale dichiaratamente finzionale e, allo stesso tempo, quasi strutturalista: il cinema si svela, smascherato dal teatro di posa, dal biancore latteo dei riflettori, dallo sguardo in macchina di Doc. Il film abbandona la sua realtà e approda nel territorio acido della mente del detective: il vizio di forma dell’economia di mercato per un momento, finalmente, sbiadisce e fonde i suoi contorni con quelli di un’allucinata traumnovelle.


Note

1. Ai tempi governatore della California, l’ex attore Ronald Reagan sarebbe poi diventato Presidente degli Stati Uniti varando una politica improntata al liberalismo più incontrollato.

2. Nel film, il protagonista in una scena a metà tra il sonno e la visione allucinogena, immagina un impossibile dialogo con Bigfoot mentre questi appare in TV.

3. Shasta è il nome del monte dove si sarebbero rifugiati i sopravvissuti del leggendario continente di Lemuria. Stando invece al fondamentale sito pynchonwiki.com, il nome Bjornsen farebbe riferimento al mutaforma Beorn che ne Lo hobbit di J.R.R. Tolkien assume le fattezze di un orso. Bjornsen significa infatti “figlio dell’orso” in svedese e in norvegese.

4. Filologica e archeologica (saturazione dei colori, illuminazione, découpage) è anche la ricostruzione degli spot pubblicitari degli anni Settanta e dei film anni Quaranta (si veda nello specifico lo spezzone con protagonista l’immaginaria star della Hollywood classica Burke Stodger, ricalcata probabilmente sulla figura di John Garfield).

5. Curiosamente, Slothrop – il protagonista del pynchoniano L’arcobaleno della gravità – proviene da una famiglia di petrolieri. Sostituendo “Slothrop” con “Plainview”, questa significativa frase estratta proprio dal romanzo di Pynchon perfettamente s’attaglia anche a descrivere il senso del film di Anderson: «La merda, i soldi, e il Verbo, le tre verità americane che alimentano la mobilità sociale, avevano reclamato a sé gli Slothrop, li avevano stretti nella loro morsa, legandoli per sempre al destino del paese.» (Pynchon 2007, p. 49).

6. Dalla teologia medievale: la cui essenza è la ragione sufficiente dell’esistenza.

7. The ideological antithesis to the Golden Fang is the lost continent of Lemuria, submerged beneath the Pacific Ocean, which the hippies and surfers imagine as an anarchist utopia, more or less accessible depending on how much acid you happen to have taken. Utopias are what the paranoid imagine when they’re on a good trip. The trouble is, it’s not always straightforward to disentangle the positive paranoia from the negative, and impossible to know which side everyone – including yourself – is really on. The more closely you scrutinise the struggle between anarchist utopia and totalitarian capitalism – also one of the threads in Against the Day (2006) – the more interdependent they seem to be. (Thomas Jones)


Filmografia

Boogie Nights – L’altra Hollywood (Boogie Nights) (Paul Thomas Anderson 1997)

Cosmopolis (David Cronenberg 2012)

Il grande Lebowski (The Big Lebowski) (Joel Coen 1998)

Il grande sonno (The Big Sleep) (Howard Hawks 1946)

Il lungo addio (The Long Goodbye) (Robert Altman 1973)

Il petroliere (There Will Be Blood) (Paul Thomas Anderson 2007)

Moses Wine Detective (The Big Fix) (Jeremy Paul Kagan 1978)

Syndey (Hard Eight) (Paul Thomas Anderson 1996)

The Master (Paul Thomas Anderson 2012)

Ubriaco d’amore (Punch-Drunk Love) (Paul Thomas Anderson 2002)

Vizio di forma (Inherent Vice) (Paul Thomas Anderson 2014)


Bibliografia

Chandler R. (2013): Il lungo addio, Feltrnelli, Milano.

DeLillo D. (2006): Cosmopolis, Einaudi, Torino.

Orsi G.F. (a cura di) (2005): Hardboiled Blues: Raymond Chandler & Philip Marlowe, Alacrán, Milano.

Soriano O. (1983): Non si muore di solo piombo. Hammett e Chandler: argomenti per un confronto, «L’Eternauta», Roma.

Soriano O. (2006): Triste, solitario y final, Einaudi, Torino.

Pynchon T. (2000): Vineland, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano.

Pynchon T. (2005): L’incanto del lotto 49, Einaudi, Torino.

Pynchon T. (2007): L’arcobaleno della gravità, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano.

Pynchon T. (2009): Contro il giorno, Rizzoli, Milano.

Pynchon T. (2009): Mason & Dixon, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano.

Pynchon T. (2011): Vizio di forma, Einaudi, Torino.

Tolkien J.R.R. (2012): Lo hobbit o la riconquista del tesoro, Adelphi, Milano.

Turner A. (2004): Just Capital, Laterza, Roma–Bari.


Sitografia

pynchonwiki.com

Jones T.(2009): Call It Capitalism, London Reviews OF BOOKS, Vol. 31 No. 17, 10 September 2009