Bruno Roberti

Uno

La Valle delle origini o le ali che sbucano dal terreno: acque superiori e inferiori, un cinema elementale. «Ema torna all’acqua perché viene dall’acqua. La sua morte è come una rinascita. Ecco perché è così gioiosa. Con l’acqua, la vita può continuare. Mi piace il suo rapporto istintivo con la natura, il biologico, l’animalità. Lei trascende costantemente la realtà, invece gli uomini non hanno ali.» (de Oliveira a proposito di Vale Abraão)

Una contadina va al pozzo a prendere l’acqua e “suscita” l’ingresso dal proscenio-fuoricampo del Cristo di spalle, in Acto da Primavera.

C’è una funzione di fregio e di cornice, di piega barocca, delle inquadrature deoliveiriane, non dissimilmente che in Ruiz: il “volo” e lo squarcio del cielo, l’immagine nell’immagine è come se imprimessero una attualità di movimento in tutte le virtualità della visione facendo assurgere il senso in un travalicare estremo in cui il segreto e la ri-velazione coincidono, estasi dello sguardo e buco di reale che fa emergere lo splendore vero della forma significante. Visione verso l’alto, sguardo verso l’alto, travelling in contre-plongeè sui soffitti stellari e sulle cime degli alberi, come sulla luce che si nasconde e fuoriesce dalle nuvole. Visione angelica che sfiora la terra, porta il volo del cielo a planare sul terreno e fa involare i nostri passi in levitazione.

Lo schermo di cielo e le stelle nell’acqua o la coda della cometa (O quinto Imperio)
Sebastiano si alza va verso la finestra
suona la campana
guarda fuori campo
sala dei re, scala, corridoio
voce fuori campo eco del ciabattino santo
quadro di Afonso-Enrique
lui avanza, guarda in alto, si inginocchia giunge le mani, stacco su una mater dolorosa e su un cristo in croce, preghiera
stacco sala del trono dall’alto
il buffone gli chiede se vuole divertirlo, fare una pantomima, fare il cane
inquadratura fissa picchiata con il re di spalle
si ritira “facendo il cane”, zoppica, si fa il segno della croce
preghiera al dipinto Afonso, voce del ciabattino dietro la tenda lo chiama
«Re Sebastiano verso quale catastrofe vuoi condurre la tua patria?»
il re alza la spada, infilza, come Amleto il “topo” dietro la tenda
«Abbassa la tua spada Signore sai bene di non spaventarmi»
«Non ho bisogno della spada per affrontarti»
«Siete qui? Vi ho fatto chiamare?»
«I poveri vendono ormai le loro misere briciole»
 il ciabattino rientra tenendo orizzontalmente la spada sulle mani
gli animali vengono in sogno, l’aquila, la farfalla, il serpente che striscia
posa la spada, spostamento in piano sequenza
parla del Re sempre desiderato e sempre nascosto
re di sogno
«ti duole il tuo destino?»
«non avrai più paura»
il ciabattino apre la tenda-quadro
sguardo fuori campo sulla notte stellata
campo stretto finestra a grate
dialogo nella notte verso l’alba
Aurora dita rosate e dita dorate

Angelica nella notte, come l‘Aurora. «È lei che lo chiama, e lui la segue... – lungo silenzio –, insomma...la parte fantastica è molto seducente, non è vero? Bisogna sempre mantenere un piede nella realtà, altrimenti le cose perdono consistenza»
ma le prime foto dallo spazio fatte dal telescopio spaziale Hubble sono di circa 500 miliardi di anni dopo il Big Bang.

Isaac guarda in alto/ Isaac si alza dal letto,
Angelica è apparsa sul balcone, il corpo si sdoppia e cade dopo aver buttato a terra il medico insieme salgono verso il cielo
si è alzato dal letto ed è caduto
rimettono il corpo sul letto
la finestra viene chiusa nel nero, si sentono i passi, scorrono i titoli di coda sul canto dei vignaioli
(la madre giansenista di cui si vede il ritratto in La lettre si chiama Angelique Arnauld, badessa di Port-Royal)
Le sette zanzare dell’Apocalisse di cui parla Rui Cardoso Martins
sette arcangeli che suonano le trombe dell’apocalisse... sette zanzare che volano
il segreto dell’antimateria
che non si mangia la materia
quando una particella incontra l’antiparticella corrispondente si fondono in un abbraccio che si trasforma nella sua essenza più pura: l’energia
ci arrivano le immagini di stelle luminose da e verso milioni di anni fa.

Misteri del Convento (e del Cinema). Piedade/Helene, Rebis e Venere terrestre-celeste, identificazione e rifrazione, levitazione verso il cielo-celato, stato ulteriore dell’immagine, suo “altro lato”, come per Angelica, dove sul mito di Faust, con i ricordi anche di Murnau, si rifrange quello di Orfeo, con le assonanze a Cocteau.

Voli alchemici o le scarpette di raso, alate, della Vergine. Così come si tratta della discesa alla terra, inversione e involarsi, terra zappata e al cui interno si trovano le “Madri”, il loro canto e il processo di metamorfosi della materia, anche filmica, in oro.
Parole della Luna: «comprendi ora come l’uomo e la donna non possono amarsi altrove che in paradiso?» (Claudel).
Amori impossibili e tema dell’angelo-stella in Cocteau, tema“orfico”.
E le luci del cinema si spengono a una a una, mentre la macchina da presa traccia, combinando travellings e panoramiche, come aveva fatto all’inizio del film, il segno della croce.

Nube del Santuario o Tempesta sull’isola. «Chi cammina sotto la pioggia si bagna», si dice in Party, l’altra parte di sé, l’anima e gli elementi, la tempesta animica, il vento di Benilde e di Party «è come una nube che viene dal mare e mi nasconde» si dice in Party, «come un tuono che viene dal mare e mi rompe in pezzi», tema osiridèo, tema elementale dell’anima-fanciulla, tema ninfico: «chi non si mette a tremare quando noi, che siamo terra, abbiamo in mano il fuoco che ci rende immortali?», tema alchemico del fuoco dell’immortalità.

Due

Teatri filosofali. Il “teatro” per de Oliveira, come del resto per Ruiz, è “theatrum alchemicum”, una dinamica vitale, una reviviscenza che, contro ciò che appare nei sui film, nega lo statico (che è anche un modo di definire le “code di pellicola” che servono ai montatori, e che “prese in sè”, nella loro materia fatta per la durata, sono come scie, code di cometa che immettono prolungamento di vita nelle immagini) e lo muta in ex-statico, in sguardo fuori di sé, perché a muoversi, e a muovere, è il pensiero, insufflato nei corpi, per cui questi, nel loro sciogliersi con il gesto-parola, possono fissarsi, nel loro stato glorioso e “spettrale”, nel senso di spettro luminoso, di corpo di luce.    
In tal senso quello di Oliveira è cinema alchemico, tende alla estrema operazione dell’alchimia, la fissazione della materia sublimata: «il teatro è la base assolutamente indispensabile per le fissazioni audiovisive, senza le quali il cinema non esiste. Ma dopo averle fissate, il cinema non ha più bisogno della presenza degli attori, perché i loro fantasmi sono sognati, immaginati».

Tre

Il paesaggio psichico si imprime nella materia e la trasforma, come in uno specchio. «Una volta che si è filmato resta qualcosa di concreto, di materiale, un fantasma della realtà. [...] È una idea cristiana quella di morire per diventare un’altra persona, e in una certa accezione è anche marxista...» (Manoel de Oliveira)
Attraversare lo specchio, come per Cocteau, è anche attraversare le fiamme, lo specchio si scioglie come acqua, ma riflette e restituisce anche il fuoco trasformatore, fiamma d’amore, calore erotico, ed è il diavolo a introdurre nello specchio, salvo poi ad essere a sua volta ingannato dallo splendore della verità. Diffrazione è dia-ballo, ma lo specchio in sé, quando si va “oltre lo specchio”, quando ci si introduce, turbando le dimensioni, rimpicciolendosi o ingrandendosi come Alice, diventa sum-ballo, un corpo simbolico, corpo-specchio. C’è bisogno della coda del diavolo, del dia-ballo perché si figuri il sum-ballo, la cifra simbolica, come un sigillo (quel disegno orfico entro una stella che vediamo in Angelica).
Del resto Lucifero porta la "luce" in-fer, nel basso mondo, e, angelo caduto, dona agli uomini l’Arte Regale (Arte Reale) dell’alchimia, come gli altri angeli ribelli invaghitisi delle figlie degli uomini, cui insegna appunto la magia rigenerativa.

È dall’alto di una magnolia, albero filosofico, che Don Giovanni in O Canibais, spia il preludio all’atto di cannibalismo, il disfarsi del corpo plurimo e virtuale, macchina celibe o statua del commendatore, in entrambi i casi kolossos, simulacro divino che si fa convitato della cena infernale, o del pasto sacro finale. Ma il convitato è lo stesso cibo, è un invitato occulto, è l’arrosto. Si cibano i piccoli borghesi salvo ad essere trasformati in animali, secondo la loro natura, in modo da svelare l’altro lato del cibo di trasformazione. E il rogo cui il corpo inaudito si sottopone, sacrificandosi e santificandosi nella lavorazione della materia, da atto (nel suo invitare alla trasformazione cui la verticalità teatrale sottoposta al solco alto-basso che compie la macchina da presa, dal fondo della terra all’alto dei cieli, nel cosmo-teatro-set rimanda alle iridescenze stellari di luci-candele-specchi) a un “geniale omaggio al bestiario di Giovanna d’Arco al rogo di Rossellini”.

Nel bellissimo finale di O Rio do Ouro, Paulo Rocha immette una vertigine mitica e archetipica al paesaggio in rapporto al corpo e la casa dipinta di sangue, il volto di madre folle di Isabel Ruth, ma soprattutto il corpo femminile della fanciulla invaso dalle api e cosparso di miele come un’antica statua di kore greca, e poi il riassorbimento abissale nelle acque, in un nuoto subacqueo che, come nell’Atalante, che segna l’incontro con l’amante divino nelle acque del fiume d’oro, compongono un paesaggio che insieme concretizza il pensiero e la percezione, una vertiginosa ascesa-discesa del corpo nella psiche e viceversa.

Altrettanto de Oliveira fa nel racconto mitologico incastonato come un gioiello antico nella fattura preziosa di Inquietude, nel mito raccontato con Agustina Bessa-Luis, della “Madre del fiume” (una Irene Papas che sembra eternizzata in un corpo graffito nel marmo dei secoli, che sembra incedere dalla notte dei tempi, da un fondo della scena interiore e originaria, così come incedeva la Callas); ritorna alle rive arcaiche percorse da Rocha con la stessa evocazione delle divinità primigenie femminili.

È un paesaggio arcaico dove il cattolicesimo e le credenze magiche si impastano nel sostrato pagano, di un paesaggio della verginità che agita immagini legate alla terra primigenia e ai misteri demetrici, di un paesaggio tutto interno al moto desiderante, all’accendersi nel corpo virginale di un desiderio improvviso e assoluto che rende il corpo stesso all’immortalità delle nozze divine.
Di questo paesaggio del fiume alchemico dell’Oro archetipico, come in Rocha, che si tratta qui: un abitare le viscere stillanti del letto del fiume, i cavernosi e ventrali ipogèi di una Pizia temuta, onorata e maledetta, un iniziare, attraverso il paesaggio vergineo-materno, ai misteri dei cicli millenari e degli eterni ritorni la figlia-kore maledetta-perduta, l’innocente Fisalina, anche lei ninfa delle sorgenti innamorata di un pastore, sposa verginea votata come una Psiche a uno sposo infero e invisibile, segnata, come l’Aurora che rinasce e si consuma nell’abbaglio dorato, dalle dita d’oro, da una cifra arcana, da un marchio pagano che la fa additare come strega durante una nera processione del corpo martoriato del Cristo e della Madonna addolorata.

In O passado e o presente le porte-non porte, che non portano che nello stesso luogo, fughe di spazi, sipari che mentre sono aperti chiudono la visione, funzionano da nascondimento degli sguardi e tendaggi che quando restano chiusi funzionano da fondo entro cui si stagliano i rebus e le allegorie, i fatali incontri tra contrari; incontrasi è incorporare il proprio contrario, tutto è in controspazio, in contromovimento, in controsguardo, in controfattualità, persino il flashback che si installa nel découpage come indecidibilità di sguardo, nascondiglio, “face cachée” letterale di un tempo che ritorna su se stesso, fa il giro, rientra nel cancello, si fa “auto”matico e autofatico, il tempo che ritorna così come il fantasma (del desiderio). In questo c’è quel tanto, evidente e dissimulato, di bunuelliano: il topo tratto dal terriccio e “preso per la coda”, come un desiderio pulsionale, dal giardiniere, lo spazio che si chiude sulla borghesia e ne traspone il lato sacrificale, come nell’Angelo sterminatore, la “sale histoire” dell’occhio, pensando a Eustache e a Bataille, nel buco della serratura da cui guarda, ed è guardata nel suo posteriore, la “femme de chambre” (e qui il Diario bunuelliano si incrocia ironicamente con l’occhio tagliato, occhi-cerniera-geroglifico-ghirigoro-mirino-serratura-chiusura-apertura).

Et vidimus gloriam eius
, scrive apocalitticamente Giovanni.

La psiche è in contatto
, diceva Freud.


Filmografia

Atto di primavera (Acto da Primavera) (Manoel De Oliveira 1963)

Benilde o la vergine madre (Benilde ou a Virgem Mãe) (Manoel De Oliveira 1975)

Giovanna d’Arco al rogo (Roberto Rossellini 1954)

I cannibali (Os Canibais) (Manoel de Oliverira 1988)

I misteri del convento (O Convento) (Manoel De Oliveira 1995)

Inquietudine (Inquietude) (Manoel De Oliveira 1998)

Il diario di una cameriera (Le journal d'une femme de chambre) (Luis Buñuel 1964)

Il passato e il presente (O passado e o Presente) (Manoel De Oliveira 1972)

Il quinto impero – Ieri come oggi (O Quinto Império – Ontem Como Hoje) (Manoel de Oliveira 2004)

L’angelo sterminatore (El Ángel Exterminador) (Luis Buñuel 1962)

La lettera (La lettre) (Manoel De Oliveira 1999)

La scarpina di raso (Le Soulier de Satin) (Manoel de Oliveira 1985)

La valle del peccato (Vale Abraão) (Manoel De Oliveira 1993)

Lo strano caso di Angelica (O Estranho Caso de Angélica) (Manoel De Oliveira 2010)

O Rio do Ouro (Paulo Rocha 1998)

Party (Manoel De Oliveira 1996)

Un cane andaluso (Un Chien Andalou) (Luis Buñuel 1929)