Traduzione di Mariarosa Di Marino

Nous poursuivons un cinéma enflammé, un cinéma pour les rêveurs transpirants, les monstres qui pleurent et les enfants qui brûlent”. Questa frase è un estratto di Flamme, il manifesto che voi due avete firmato sui Cahiers du cinema nell’agosto del 2018 assieme a Yann Gonzales e Bertrand Mandico. Un mese dopo, Jessica Forever veniva presentato a Toronto. La parola mostro ricorre spesso nel film e le fiamme divampano in modo letterale sullo schermo. Praticamente una corrispondenza perfetta tra intenti e risultati…

Poggi: Il mostro era il punto d’origine del film, la base. È da lì che è nato Jessica Forever. Volevamo lavorare a partire da degli anti-eroi, e cioè da ragazzi ultraviolenti, e domandarci come si potesse sanare questa ultraviolenza. Credo che il legame con il manifesto risieda nel fatto che tutti noi, Bertrand, Yann, Jonathan e io, attraverso il cinema cerchiamo di spostare i confini e le immagini, arrivando quasi a coprire le tracce per cercare altre forme, altri personaggi, altre emozioni, altre sensazioni. Il fuoco, questa fiamma, rappresenta le sensazioni che abbiamo nel ventre, all’interno di noi stessi. Il nostro è un cinema viscerale, che viene dalla pancia e che deve viversi attraverso le emozioni. Credo che sia questo il legame tra il mostro, il fuoco del manifesto e il film.

Nello stesso periodo con Gonzales e Mandico, che figurano tra i ringraziamenti al termine della pellicola, avete anche realizzato il film collettivo Ultra rêve. Vi siete confrontati durante la lavorazione di Jessica, c’è una qualche forma di influenza da parte loro?

Poggi: Non c’è stata una vera influenza ma credo che frequentare persone come loro, vivere insieme il quotidiano, lavorare con loro e aver firmato insieme il manifesto, in qualche modo dà la forza di arrivare a questi film, che sono in un certo senso delle specie mostruose perché non assomigliano per niente a quello che si ha l’abitudine di vedere al cinema. Avere Bertrand e Yann al nostro fianco è un modo di convalidare le cose, di dire che è possibile fare un cinema di questo tipo e che bisogna avere il coraggio di farlo perché è un cinema importante.

Ed è per questo che li abbiamo ringraziati, perché sono stati presenti in diversi momenti. Yann per esempio ha riletto la sceneggiatura, dandoci delle indicazioni; Bertrand ha visto il film durante il missaggio e la voce dell’acqua che parla nel film è quella di suo figlio, Abel Mandico. Credo che si sia creato un tipo di famiglia nella quale ci si spinge a credere in quello che abbiamo dentro e nei nostri sogni e credo che sia estremamente importante per il cinema che sogniamo di fare.

Una comunione d’intenti…

Poggi: Sì perché questo tipo di film è ancora difficile da produrre. Noi abbiamo avuto fortuna perché si trattava di un’opera prima ma in generale si tratta di film che necessitano davvero che ci si creda, che ci si batta. Il fatto che noi quattro siamo insieme, che ci siano stati dei momenti in cui ci si vedeva semplicemente per parlare del punto in cui eravamo, di come avremmo potuto fare, ci rende davvero dei compagni di cinema. Credo che sia la giusta definizione.

Nei titoli di coda c’è anche Gaspar Noè, che quattro anni fa, in Love, ha lanciato la protagonista del vostro film, Aomi Muyock. Una scelta che a mio parere coglie nel segno. Cosa vi ha spinto a scegliere proprio lei per interpretare Jessica

Aomi Muyock nei panni di Jessica

Vinel: Nel periodo in cui Aomi era a Cannes con Love abbiamo visto una sua intervista che ci ha molto colpito, durante un programma francese su Canal+. All’epoca non sapevamo neanche se parlasse francese, quindi la sua persona ha lasciato spazio alla nostra immaginazione. Quando poi l’abbiamo incontrata corrispondeva totalmente a quello che cercavamo. Nel film il personaggio di Jessica è molto misterioso, non si sa da dove viene, che cosa ha fatto, parla molto poco e serviva qualcuno che nella vita vera avesse un carisma e un’aura eccezionale, qualcosa di molto misterioso. Ed è proprio quello che abbiamo trovato in Aomi, per il suo essere molto terrena, ma allo stesso tempo anche molto extraterrestre. È stata l’unione di questi due aspetti che ci ha permesso di arricchire enormemente il personaggio di Jessica.

Inoltre, nella sua vita di tutti i giorni Aomi ha qualcosa del personaggio di Jessica. È una persona molto materna che vuole davvero salvare questi ragazzi e credo che lo farebbe davvero nella vita reale. Questo vale anche per tutti  gli altri attori che abbiamo scelto per il film: hanno tutti qualcosa dei loro personaggi dentro di loro.

Jessica è il capo e la madre ideale, oltreumana, di un gruppo di guerrieri chiamato Orfani, giovani ribelli dimenticati e perseguitati dal sistema e dalle forze di repressione. Tra di loro c’è un profondo senso di comunità e di protezione reciproca, a cui nel film viene dato grande risalto. Volete dirci che si sopravvive meglio - alla violenza, alle costrizioni, alla uniformazione - se si sta insieme?

Poggi: Sì! (ride). Questi Orfani sono dei prodotti, sono violenti anche perché la società li ha creati così e li ha condizionati a essere così. È per questo che sono quasi una leggenda, qualcosa di globale: non si dice cosa hanno fatto, nè qual è la loro situazione familiare ma è una storia molto più grande e forse molto più antica di loro che li ha resi così come sono.

Il fatto di ritrovare il collettivo è qualcosa di cui abbiamo davvero sempre più bisogno ai giorni nostri per riconnetterci al mondo e all’umano e guarire dalla violenza. Significa davvero darsi delle nuove regole rispetto a quello che ci è stato insegnato da questa società iper capitalista che ci isola sempre di più, e che ci insegna a vivere soli e a non pensare che a noi stessi. Jessica rappresenta proprio questo: il faro che rischiara nella notte, la possibilità di riconquistare il collettivo.

C’é un riferimento anche al collettivo artistico che formate con Mandico e Gonzales?

Poggi: Non direttamente. Ma penso che ci siano tantissime cose che si sono legate, sia nel privato che nel film. Il semplice fatto di voler fare cinema sottende una volontà di ricreare un collettivo, anche cercare un’équipe significa cercare quel collettivo, quel mondo di legami tra le persone. Credo che il cinema in sé sia già una storia di collettivo, perché non si può fare cinema da soli. Poi certamente il fatto di avere una banda di amici, una banda di cinema, il fatto di creare una famiglia al cinema credo sia molto importante.

In Jessica, per esempio, la sfida più grande che ci eravamo prefissati durante la scrittura era far capire che non esisteva un personaggio principale perché il personaggio principale era il gruppo. Quando lavoriamo ai nostri film sentiamo sempre la presenza di Bertrand e Yann al nostro fianco e questo fa sì che cerchiamo di ricreare un collettivo altrove. Credo che sia una questione di forza e di volontà di ricreare un’umanità attraverso la quale si possano concepire altri modi di fare e di riflettere, sia nel gruppo di Jessica che nel cinema.

Mi pare che in questo assunto ci siano evidenti risvolti politici. Gli Orfani sono degli esclusi e recriminano soprattutto la privazione dei diritti, in primis il diritto alla proprietà. E cercano di riprendersi con la forza ciò che gli è stato negato…

Vinel: Gli Orfani per noi rappresentano davvero il rapporto con il mostro: persone che sono state iper violente e che per questo sono state escluse dalla società. Per noi è l’immagine di ciò che è respinto, che è messo da parte, che è messo al bando dalla società. Credo che rappresenti davvero la realtà perché viviamo in un mondo che condanna enormemente e molto velocemente e che cerca molto poco di curare le persone. Spesso l’unica risposta per chi ha fatto qualcosa di orribile è metterlo in prigione, punirlo.

Jessica invece crede che non serva a niente punire le persone se sono state orrende ma bisogna solo dar loro amore, perché è proprio l’amore la cosa che gli è mancata. È proprio questo il programma del film. Questi ragazzi sono solo rimasti soli e sono diventati cattivi perché nessuno li ha aiutati, perché nessuno li ha amati e questo li ha trasformati in una sorta di Golem, un’entità estremamente terrificante che vuole mangiare tutto.

È per questo che dicono la frase “Non abbiamo diritto a niente, dunque prenderemo tutto”. Ma considerarli dei mostri fa sì che forzatamente essi lo diventino ancora di più.

Quindi loro sono esclusi perché iper violenti e non sono iper violenti perché sono stati esclusi?

Vinel: Penso che si tratti di un ciclo infernale all’interno del quale le persone sono bloccate. Quello che importa non è più sapere quale sia la causa ma piuttosto come fare per vivere in quel modo e come cambiare le cose. Credo che incarnino una tragedia molto più antica di loro. Rappresentano tutte quelle persone che nella vita sono state ripetutamente colpite e denigrate e che danno vita a una generazione orribile che non ha più voglia di preservare il mondo, ma ha solo il desiderio di distruggerlo. Questo perché nessuno ha mai dato loro una possibilità di essere nel mondo. È un circolo vizioso piuttosto vago: sono violenti perché non sono amati o non sono amati perché sono violenti? All’interno di questo circolo tutto si perde, ed è questo quello che Jessica rappresenta.

Nonostante i guerrieri sappiano come ricorrere alla forza, all’interno di questa comunità circola una grande quantità di emozioni e sensibilità, che è come asserragliata perché assediata da una umanità senza volto e da droni senz’anima. Questa emotività rimane tutta all’interno del gruppo e non deve trapelare all’esterno…

Vinel: Quello che ci interessava era creare un contrasto. Ci piace sempre giocare su cosa significhi essere un uomo e, in questo caso, un uomo violento. Quindi ci sembrava interessante giocare su ragazzi super muscolosi che imbracciano delle armi e allo stesso tempo farli parlare come bambini che si perdono a contemplare un tramonto. È un modo di giocare con i codici dei film d’azione e dei videogiochi, cercando di manipolarli e mettendoli altrove, in modo che sprigionino dolcezza, ingenuità e anche un po’ di poesia.

D’altra parte ai droni invece non interessa sapere se le persone abbiano un’umanità e un cuore: vogliono solo sapere se hanno compiuto brutte azioni. Questo ancora una volta riconduce al fatto che non si cerca di trovare il buono delle persone ma si guarda solo il male. Le si giudica solo perché hanno fatto qualcosa di male in un dato momento e tutta la loro vita è finita. Non è altro che una questione di redenzione.

Poggi: Gli Orfani non sono cresciuti nella società e dunque non ne possiedono i codici psicologici, della parola, della facilità nè tantomeno della menzogna. Tutto quello che dicono, quello che noi abbiamo cercato di descrivere, sono cose molto pure, che vengono dal cuore ed è per questo che parlano poco e con un’estrema ingenuità e molto candore, perché tutto viene dall’interno dei loro pensieri. E quando pronunciano una parola, ha una grande importanza. Danno tutto quello che hanno nel momento in cui devono parlare o agire. E dunque vi è davvero una sorta di candore che deriva dal fatto che non possiedono i codici della società.

Nel vostro manifesto si fa esplicito riferimento alla dimensione del sogno e anche la critica, a partire proprio da Uzak, ha sottolineato questa propensione al superamento del reale, questo continuo dimorare nell’iperrealtà. Gli effetti speciali volutamente invasivi, ad esempio, non fanno che sottolineare ulteriormente questo scollamento. Il cinema deve riappropriarsi delle sue origini, tornare all’immagine e all’immaginazione?

Vinel: Sì, e penso che questo sia un retaggio della nostra infanzia. Siamo cresciuti entrambi in quartieri residenziali nel sud della Francia, Caroline in Corsica e io a Tolosa. Sono i luoghi in cui abbiamo imparato a sognare. Ci dicevamo “non succede niente, quindi dobbiamo immaginare delle cose”.

Io ho conosciuto il cinema proprio in relazione a questo e vengo da una vena del cinema che è strettamente imparentata al sogno, quei film che immaginano e che non hanno paura di andare ad aprire delle porte sconosciute. Credo che sia questo quello che amiamo nel cinema: semplicemente creare delle utopie, degli spazi che non esistono nella realtà. Per me il cinema non serve soltanto a filmare la realtà ma anche ad evadere dal reale, soprattutto perché credo che il mondo in cui viviamo stia diventando sempre meno abitabile e sempre meno felice. Per questo si creano degli spazi che possano essere come bozzoli all’interno dei quali i personaggi possano rifugiarsi.

Nel film per esempio ci sono dei momenti in cui Jessica pronuncia parole d’amore o momenti in cui l’acqua si mette a parlare. È un modo di mostrare che il mondo può essere ancora accettabile nonostante la realtà.

Lo scollamento dal reale si traduce anche nell’indeterminatezza dei riferimenti spazio-temporali. E la musica contribuisce a questo effetto di straniamento. Ad un certo punto in Jessica si sente Musica per il funerale della regina Maria di Henry Purcell, che immediatamente colleghiamo ad Arancia Meccanica. È un’affinità tematica (la violenza nei giovani) o piuttosto un evocare un mondo ormai andato, perduto? E che valore ha la musica nella vostra idea di cinema?

Poggi: Per quanto riguarda Musica per il funerale della regina Maria, non c’è stata una vera intenzione al riferimento. Poi è chiaro che esista un legame, ma è stato piuttosto incosciente, sul momento. Però è vero che mi sono sempre detta che se non ci fosse stata Jessica per quel gruppo di ragazzi sarebbe finita come in Arancia Meccanica, un casino! (ride).  Semplicemente ci sono state musiche che avevamo voglia di provare a inserire, ci siamo detti “perchè no?” e hanno funzionato.

La musica ci accompagna durante tutto il processo di lavoro, dalla scrittura fino alla fine. Io e Jonathan scriviamo molto con la musica. Una volta arrivati al montaggio abbiamo sul computer enormi quantità di files di musica che testiamo. E partendo da lì facciamo quasi una nuova scrittura del film e dei personaggi. Credo che nel film ci siano diversi viaggi che lasciano spazio allo spettatore: il viaggio delle immagini, il viaggio delle voci fuori campo e il viaggio delle musiche. E poiché i tre non sono legati concretamente è compito dello spettatore trovare i legami tra questi viaggi che sono spesso in contrasto tra loro e, in seconda battuta, legarli alle proprie emozioni, al proprio vissuto e alla propria personalità.

Inoltre visto che i personaggi si esprimono poco nel film, la musica è servita come un modo per piantare un termometro al loro interno e per sentire davvero una sorta di emozione generale e, sempre per il fatto che il film non ha personaggi principali ma è un film di gruppo, la musica è stata in un certo senso il modo di passare il testimone tra i singoli personaggi e far percepire l’atmosfera generale del gruppo.

Quindi non c’era un riferimento né tematico né stilistico ad Arancia Meccanica?

Vinel: Non direttamente, e non in maniera logica. Ma se pensiamo che si tratta di un brano composto per un funerale credo che questo si leghi al fatto che il film racconta, in un certo senso, il funerale del gruppo. Il momento in cui arriva è quello del trasloco, il momento in cui i ragazzi arrivano sull’isola, il luogo in cui moriranno. Sono delle sensazioni che attraversano il nostro lavoro e anche se non si vogliono espressamente fare dei riferimenti alle volte ci sono cose più grandi di noi e il riferimento nasce da solo.

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