Nel cinema ci sono forze – energie, impulsi, liberazioni – che i suoi schemi narrativi, l’insieme e l’intreccio dei quali chiamiamo comunemente “storia” o “trama”, non può (o non deve) controllare. L’atto del recitare, ad esempio: vale a dire, nella sua accezione più “performativa” e meno “rappresentativa”, l’espressione pura e incontenibile del sentire attraverso il gesto, l’azione.
Se in un’intervista per il suo ultimo film, El paraiso, in questi giorni in sala grazie alla distribuzione di I wonder pictures, Enrico Maria Artale riconosce come nume tutelare del suo cinema John Cassavetes, allora la questione del corpo attoriale, la necessità di lasciarlo manifestarsi in tutta la sua pienezza, di credere fino in fondo alla sua verità e compartecipazione al processo realizzativo, diventa metodo di creazione, procedimento creativo.
Il film racconta di un rapporto d’amore tra una madre di origini colombiane (interpretata da Margarita Rosa De Francisco, attrice molto nota in Sudamerica per aver interpretato alcune soap operas di successo) e il figlio cresciuto in Italia (Edoardo Pesce), segnato dalla dipendenza (non solo affettiva) e dall’arrivo, ad un certo punto, di un’altra donna. C’è una scena che la riguarda – quella in cui il protagonista Julio Cesar, interpretato con grande efficacia da Pesce, esce a bere con lei, Ines (Maria Del Rosario), ragazza colombiana di cui si sta innamorando – che vede in campo degli adolescenti. Il regista racconta che sul set non sapevano bene cosa fare, che erano intimiditi, e che per uscire dall’impasse uno di loro ha proposto che il suo personaggio consegnasse un bigliettino amoroso alla bella sudamericana. La proposta viene talmente apprezzata da diventare parte della diegesi, con un dialogo – tra i momenti più belli del film – tutto incentrato sul pizzino sentimentale e sulla gelosa e libera traduzione che Julio ne fa a Ines. Questo lasciarsi spronare, speronare, dall’improvvisazione che nasce nell’ininterrotto flusso delle riprese, dalle sobillazioni dell’attore, dalla sua ribellione ai dettami e alle prescrizioni del copione, fa sì che El Paraiso possa esplorare e mettere a segno, in segni, una spontanea fluidità non proprio comune nel cinema italiano.
È, questa, la cifra di un approccio aperto e audace al filmmaking, una tendenza carsica che, riconoscendo la porosità dei bordi tra filmico e profilmico, fa confluire nell’invaso da cui poi scaturisce l’opera cinematografica i fiotti del reale che si manifesta, oltre la finzione, davanti alla macchina da presa. Ed è per questo che El Paraiso nasce sì da una suggestione avanzata dall’amico e protagonista Edoardo Pesce, con cui Artale aveva già lavorato nel suo primo lungometraggio di finzione (Il terzo tempo, uscito nel 2013), ma si compone progressivamente nell’arco di un processo produttivo lungo ben 7 anni, in cui il suo autore ha riversato quello che aveva appreso durante la lavorazione di Saro, documentario in cui si metteva sulle tracce di un padre che non aveva mai conosciuto ma che finisce per farlo interrogare sul suo rapporto con la madre, che diventa poi, appunto, centrale, in El paraiso.
Alla stessa logica, che mira ad un realismo profondo e non di superficie, possono essere ricondotte anche le scelte di non far incontrare Maria Del Rosario ed Edoardo Pesce se non quando si trovano a girare la loro prima scena insieme oppure la decisione da parte del regista di non parlare più con il suo attore principale in vista della scena in cui deve effettivamente adombrarsi totalmente per la tragedia che lo ha colpito.
Artale ricerca la verità del sentimento, la bellezza multiforme e irriducibile che sta dentro e fuori di noi, lo “splendore del vero”, come avrebbe detto Godard (citando Platone e pensando a Rossellini). Che non riguarda tanto o soltanto ambienti e descrizioni, ma la costruzione credibile di stati d’animo e percezioni; perché il cinema consente, per citare nuovamente Godard, «uno sguardo a ogni istante talmente nuovo sulle cose da trafiggerle», un’arte «capace di imprimere con più forza la propria trascendenza, e far esplodere nel segno la bellezza dell’oggetto significato».
Ecco perché El paraiso è un film vero e personale, vero perché personale; un film che riflette fino in fondo sul tema dell’origine (che, biologicamente, al netto di interpretazioni ideologiche che potrebbero far pensare a parole come “patria” o “appartenenza culturale”, è semplicemente il ventre materno o una vulva, se pensiamo a Courbet), dell’identità e della dipendenza, senza mai scadere in considerazioni o rappresentazioni facili o stereotipate. L’impossibilità di strappare i legami, l’incapacità di emanciparsi da una relazione fondamentale ma in fin dei conti anche nociva, genera delle aberrazioni psicologiche che, al di là di un portato eminentemente psicoanalitico e di riferimenti più o meno personali, privati, costituiscono materiale elettivo per un racconto audiovisivo, intessuto, com’è, di fantasmi, di perturbante, di sommerso. Tutte cose che vengono dal buio, esattamente come il cinema, che si fa bagliore sulle ombre, flebile faro nella notte dell’ignoto, dispositivo di rischiaramento, di visione, di scandaglio. A questa fantasmagoria contribuisce poi la musica, che trasfigura questo lembo di mondo alla foce del Tevere in un angolo di Sudamerica, evocato, oltre che dal pastiche linguistico tra spagnolo e romano, dai grandi classici della canzone ecuadoreña o messicana e dall’elettronica latina di Nicolas Jaar. Il noto musicista statunitense-cileno, che ha composto, tra le tante, anche le musiche di Ema di Pablo Larrain, con cui Artale ha avuto un fecondo scambio durante la lavorazione del film, e di Dheepan, film che è valso la Palma d’Oro una decina di anni fa a Jacques Audiard, uno degli autori preferiti dal regista romano, ha infatti concesso l’utilizzo gratuito di un suo brano per El paraiso, avendolo particolarmente apprezzato.
Anche se il mondo del film è il nostro presente, la musica appartiene agli anni ’70 e richiama con nostalgia e straniamento un altrove da cui Julio Cesar è inevitabilmente attratto e che poi andrà, non a caso, a cercare, individuando l’importanza di ritrovare il principio, la risposta alla domanda “da dove veniamo”. Un paradiso, come recita il titolo, che forse non esiste affatto, se non in una dimensione a metà tra il sogno, il ricordo e la fantasia, ma che ci trasporta lo stesso, al ritmo di una danza intima con le nostre viscere, un po’ più vicini a dove dovremmo essere.