Meteors è il primo lungometraggio del regista turco Gürcan Keltek. Un esordio sorprendente che ha sedotto gli sguardi di molti degli spettatori della sezione Cineasti del Presente alla 70esima edizione del Locarno Festival, dove è stato proiettato in anteprima mondiale. Vi si ritrovano rari materiali d’archivio sulle operazioni militari turche della tarda estate del 2015 nelle regioni curde dell’Anatolia orientale, quando, dopo un periodo di tregua e di trattative, la situazione precipitò e la Turchia decise di avviare una feroce campagna bellica contro gli autonomisti del PKK.

Ma ciò non basta ad inscriverlo nella cerchia delle produzioni documentaristiche. Meteors mette assieme found footage ed elementi di finzione, sperimentazione e visione del reale. L’attrice e scrittrice Ebru Ojen, co-autrice del film, è voce narrante che attraverso la lettura di estratti del suo diario dà corpo alle sofferenze di un intero popolo. I frammenti del conflitto diventano allora il pretesto per una riflessione molto più intima e personale sulla morte, sulla paura dell’annientamento, sulla scomparsa e sulla radicalità di certe trasformazioni. Poco prima della proiezione del film al cineporto di Bari, nell’ambito della rassegna Registi fuori dagli sche(r)mi, Keltek ne ha parlato con Uzak.

Meteors è il primo film a mostrare il Kurdistan dopo le rivolte del 2015 da un punto di vista interno. Ora queste immagini sono state proiettate a Locarno e in molti altri festival europei. La loro circolazione rappresenta già di per sé un fatto eccezionale, perché la Turchia è molto attenta a censurare ciò che potrebbero nuocere alla propaganda di regime. Come ti senti a riguardo?

È vero. Mi fa uno strano effetto perché sono stati effettivamente in pochi a registrare quanto avvenuto. Nel mio film ho utilizzato una parte del footage che sono riuscito a recuperare e vi ho aggiunto il mio girato. A poche persone viene concessa una simile autorizzazione e questa generale carenza di materiale audiovisivo è uno dei motivi principali per cui ho prodotto questo film: non volevo che queste immagini fossero dimenticate. Che scomparissero tra le news di un’agenzia di stampa o marcissero negli archivi privati, compreso il mio. All’inizio non pensavo che fossero abbastanza buone per farci del cinema, ma con il montaggio tutto ha acquisito un senso. Al di là degli aspetti politici, ho voluto catturare un’atmosfera, la psicogeografia del territorio curdo. Meteors ha a che fare con la memoria, con il ricordo. E ora che quelle cose non ci sono più, che molti quartieri sono stati distrutti e ricostruiti, tutto assume una rilevanza ancora maggiore. Non so se sono riuscito a fare un buon film, ma questo aspetto non si può trascurare.

Qualcuno vi ha ostacolato durante le riprese?

Durante lo shooting non abbiamo avuto problemi, ma non ero convinto del materiale acquisito e ho deciso di tornare lì dove avevo girato. È stato allora che ci hanno notato e hanno segnalato la nostra presenza a Diyarbakir. Ma i veri grattacapi sono cominciati quando hanno capito che non si trattava di riprese per i notiziari o per qualche video virale ma per un film. Di lì in poi è nata una certa opposizione da parte del governo, che giustificava le sue azioni affermando di aver semplicemente messo in atto delle misure di protezione contro i terroristi. Distribuire il film in Turchia è stato chiaramente molto difficile. Mettere quelle immagini in un film, renderle parte di un’opera cinematografica, mi ha messo in condizioni di essere accusato di apologia e favoreggiamento del terrorismo. Sia ben chiaro: quelle persone non erano terroristi. Nei quartieri dove ho girato c’era certamente qualche parente di guerriglieri, ma perlopiù si trattava di un rione normalissimo, abitato da gente normale. Ad ogni modo ho comunque deciso di autocensurarmi preventivamente, prima che intervenisse la censura ufficiale, perché credo che politicamente i tempi non siano dei migliori per un’operazione come la mia. È una decisione presa assieme al mio produttore.

Quindi in Turchia non è mai stato proiettato?

Non legalmente. L’ho mostrato ad alcuni studenti di cinema all’università, ma le uniche sale cinematografiche ad averlo proiettato sono quelle dei festival europei, Locarno in primis. E questo è ciò che conta davvero. Non ho mai pensato di sottoporlo alla visione di milioni di miei connazionali perché so che la questione dei conflitti tra Turchia e Kurdistan è ancora troppo aperta, che pochi avrebbero davvero capito le mie intenzioni. C’è stato un blog che pure apprezzo, ad esempio, che ha odiato il film per il modo in cui ha dipinto i turchi. E questo è emblematico di come il mio Paese avrebbe accolto il film. Sono tutti molto nervosi sull’argomento, incapaci di esaminarlo con serenità.

Per via della propaganda anti-curda?
Per via della propaganda, certo, ma anche perché le forze di sinistra hanno perso fiducia nei leader curdi, che hanno commesso degli errori. Tutto è cambiato rispetto a tre anni fa. Prima l’ala progressista e i liberali sostenevano la causa curda e volevano che i loro esponenti politici entrassero Parlamento. Poi questi hanno preso delle decisioni sbagliate e sono finiti in prigione. Il film però non porta avanti un’agenda politica. È un film in realtà molto personale.

Ad un certo punto nel film, la voce narrante di Ebru Ojen, dice che “la morte è reale” e che non è una cosa che dovrebbe essere tramutata in arte. Mi è sembrato di riascoltare le parole esatte di “Death is real” di Mount Eerie.

È proprio così, infatti! Abbiamo aggiunto quelle parole durante la postproduzione perché mentre scrivevamo i testi della voce narrante io e Ebru ascoltavamo molto spesso questa canzone. Abbiamo voluto fare una citazione che fungesse da gioco nascosto per il pubblico inglese e americano. È la prima volta che in Italia lo scoprite (sorride). Mi piace riutilizzare elementi della produzione musicale contemporanea e non. Il mio lavoro precedente, per esempio, prendeva il titolo da una canzone dei Joy Division, Colony. Ecco perché insisto nel dire che il film non ha finalità politiche ma nasce da una esigenza del tutto personale. È una collezione di cose a cui ero interessato in quel periodo. Riguarda soprattutto l’idea della morte. Ho perso mia madre in quel periodo e conosco molto bene la sensazione che si prova. Quelle parole riflettono efficacemente il tumulto interiore in cui si ritrova chi ha perso un affetto e critica la visione romantica che se ne fa nell’arte.



Ecco perché non mostri direttamente la morte in Meteors, anche se c’è un animale morente…

Si, e non certo perché non avessi materiale di questo tipo. Avevo riprese in cui uomini morivano letteralmente dinanzi alla cinepresa. Non dico che in altre circostanze non si possa affrontare artisticamente questo tema, ma in questo caso non ritenevo giusto farlo. La morte viene usata come strumento di propaganda da entrambi gli schieramenti. È diventata una parola sporca, laddove la morte è una cosa intima, con una sua precisa dignità. Se si fanno documentari bisogna fare delle scelte, e io le ho fatte in maniera netta. Dell’animale vediamo gli ultimi istanti di vita, ma è una cosa diversa.

Come hai conosciuto Ebru Ojen e perché hai scelto i suoi diario per il commento verbale al film?

È una mia cara amica da tanto tempo. Con lei ho fatto ho fatto Overtime, un cortometraggio che Giona Nazzaro (ospite durante la visione al cineporto e la conversazione con il regista, ndr) ha selezionato nel 2012 per Vision du Réel. Fu un esperimento a cavallo tra documentario e finzione che ci fece avvicinare molto. All’epoca lei stava muovendo i primi passi come scrittrice ed ebbi modo di apprezzarne la scrittura, che cresceva di giorno in giorno. Ebru è diversa dalla maggior parte dei curdi. Viene da una famiglia con una storia politica molto intensa ma ha studiato ad Istanbul, ad ovest dei territori abitati dai suoi conterranei. Quando ho deciso di fare Meteors sapevo che lei conosceva molto bene l’area e ciò che stava succedendo. Tra l’altro è una donna bellissima e io desideravo un film con un tocco femminile. Il suo volto mi fa pensare ad alcune splendide attrici turche…

A proposito, sono venute prime le parole o le immagini?

Prima le immagini. Sono partito subito con il montaggio del footage che avevo e poi me ne sono procurato dell’altro andando al confine con il Kurdistan per poi rimontarlo assieme ad ulteriore materiale d’archivio.

Da dove proviene questo materiale?

Da molti posti diversi. Siamo dovuti andare anche in alcune scuole e visionare i filmati delle telecamere di sicurezza. Le riprese delle meteore abbiamo provato a farle noi ma non ero soddisfatto così ho chiesto ad una crew televisiva russa che si trovava in zona. Non mi faccio problemi ad utilizzare anche materiali diversi, senza pressioni, come dire, filologiche. Il mio modo di lavorare è più simile a quello adottato per i film di finzione. Lo ripeto spesso quando proiettano il mio film in festival documentaristici.

Del resto anche l’uso che fai della voce narrante è lirico e non descrittivo, un po’ come avviene in alcune opere della Nouvelle Vague

Esattamente. Non sono un purista, non credo che si debba pretendere una sorta di purezza dal cinema documentaristico. È molto importante essere al posto giusto al momento giusto con una cinepresa per le mani. Sono consapevole dell’importanza di questo aspetto, ma credo nella costruzione, nella pianificazione, nel colore, nel suono, nell’utilizzo del linguaggio audiovisivo in tutta la sua potenza. Non comprendo quanti mi dicono: “riprendo solo ciò che vedo”. Il medium in sé effettua già una manipolazione.

Se proprio vogliamo anche solo la scelta dell’inquadratura è una scelta teorico-linguistica. Ripenso ad alcune prese di posizione da parte di Rossellini

Assolutamente sì. Rossellini è un ottimo esempio, un maestro per tutti noi. Ha già fatto cose di questo tipo sessanta-settanta anni fa e resistono meravigliosamente al tempo che passa. Sento che il mio lavoro è molto ispirato dal suo, soprattutto dal modo in cui dirigeva gli attori. Mi è capitato di scoprire “Francesco, giullare di Dio” mentre montavo Meteors. Sono rimasto sconcertato da ciò che è riuscito ad ottenere da attori amatoriali. C’è una sorta di dialogo che si instaura tra reale e finzione, qualcosa che può anche generare confusione, senza che questo sia negativo. Il pubblico ha imparato ad amare una certa dose di confusione durante la visione.

Parlavi di costruzioni. È per questo che hai scelto di strutturare il racconto all’interno di capitoli?

Mi piacciono i capitoli. Catturano l’attenzione quando appaiono sullo schermo. Mi sono ritrovato a raccontare tanti avvenimenti che accadevano contemporaneamente. Se avessi provato a raccontarli in maniera convenzionale, il pubblico si sarebbe smarrito irrimediabilmente. I capitoli mi danno la possibilità di fare riferimento ai temi, all’atmosfera, alle metafore e alle relazioni tra questi elementi. Tutti possono capirli. Mi piace che i titoli dei capitoli siano semplici, come se fossero dei pezzi punk.

Uno dei capitoli si chiama Disintegration. E in effetti in Meteors la sostanza sembra smottare, franare. È quello che sta accadendo ai curdi, sono a rischio scomparsa?

La parola disintegrazione ha anche altre accezioni in turco e in curdo. Le nostre stesse esistenze possono disintegrarsi, il dialogo anche. C’è stato un momento dopo il 2015 in cui non c’era più dialogo o relazione. Geograficamente era molto evidente. Ho utilizzato la distruzione come metafora mentre giravo, ma chiaramente ha anche una valenza reale, concreta. La distruzione è stata effettiva. Ora siamo entrati in un'altra fase.

Cioè?

È tutto finito, non c’è più nulla. Tutto è scomparso. Ecco perché questo film è un po’ una pecora nera, perché costringe a ricordare cose che gran parte delle persone non vogliono più ricordare. Siamo tornati al punto di partenza, dobbiamo ricominciare da capo. E c’è una matrice universale in tutto questo. La storia insegna che intere nazioni e comunità hanno dovuto attraversare momenti bui per poi approdare ad un cambiamento radicale. A me interessa la trasformazione, ciò che posso comporre cinematograficamente con questa dialettica odio-amore, distruzione-ricostruzione.

Puoi dirci qualcosa sul tuo nuovo film?

Continua nella scia di Meteors ma sarà molto più accessibile. Parla ancora di distruzione. Ma stavolta l’ambientazione è Istanbul, si parla di decadimento mentale, di male collettivo. È un mix tra documentario e horror.

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