Mentre la macchina da presa volteggia su per il fianco femico dell’enorme vulcano a scudo dell’isola di Ambrym, le voci del coro di monaci del Monastero Pechersk di Kiev intonano un possente canto russo ortodosso. Pare che quando Werzog abbia rivisto queste riprese aeree, con cui ha poi deciso di aprire Into the Inferno, abbia capito «in un istante» (lo ha detto lui stesso in uno speech durante il Red Bull Music Academy New York Festival 2017) che l’unico commento musicale adeguato a quelle immagini di lava basaltica stratificata, di ascensione sopra quella colossale, sedimentata opera della natura e del tempo, fosse un coro della tradizione sacra sovietica. 

Come Hercules Segres, pittore e incisore olandese del diciassettesimo secolo molto amato dal regista tedesco, Herzog ha sempre cercato di cogliere e rappresentare quella che per lui è la verità più “interna”, più interiore, intima, dei luoghi, dei paesaggi, degli individui; delle cose, persino. Una verità ben nascosta sotto la superficie del mondo, come il magma rovente del vulcano, inaccessibile a chi la scambia ottusamente per la mera fattualità, per i fatti nudi e crudi, (come il cinema verità, ad esempio, contro cui Herzog si è spesso scagliato). Del resto una delle sue esternazioni più pregnanti contiene precise indicazioni a riguardo: «There are deeper strata of truth in cinema, and there is such a thing as poetic, ecstatic truth. It is mysterious and elusive, and can be reached only through fabrication and imagination and stylization».

È la “verità” che il cineasta tedesco chiama, notoriamente, “estatica”, una definizione apparsa nella celebre “Dichiarazione del Minnesota”, resa al critico Roger Ebert alla fine di una retrospettiva-tributo a lui dedicata dal Walker Art Center di Minneapolis nel 1999, poi ripresa nell’altrettanto noto, estemporaneo discorso sul sublime pronunciato a Milano nel 2010, dopo la proiezione di Lessons of Darkness, riportata in seguito nel saggio On the absolute, the sublime, and Ecstatic Truth. Un livello di autenticità che Herzog ha raggiunto non solo, non sempre, grazie all’immagine, ma anche, soprattutto, per mezzo della musica, del suono o, in molti casi, della sua assenza, del silenzio. Lo ha chiarito lui stesso in diverse occasioni: non esiste musica di sottofondo nei suoi film. 

E se è vero che nella sua lunga carriera Herzog ha utilizzato sonorità che spaziano dalla musica classica europea a diversi tipi di rock e di word music, fino alle creazioni del compositore hollywoodiano di origini tedesche Hans Zimmer, è stato probabilmente il krautrock – ben prima che la musica sperimentale tedesca degli anni Sessanta e Settanta diventasse genericamente nota con questo termine anglofono dalle origini inequivocabilmente stereotipiche e denigratorie –, e in particolare i brani dei Popol Vuh, a fornire i contributi sonori più significativi ai suoi film più acclamati. 

La collaborazione tra Herzog e Florian Fricke, tastierista, compositore e leader dei Popol Vuh, di cui fu essenzialmente l’unica costante, dati i continui cambi di lineup, risale al primo lungometraggio di Herzog, Segni di Vita (1968), per il quale Fricke non curò le musiche ma interpretò un personaggio secondario, pianista come lui (a musicare il primo film di Herzog fu infatti un altro compositore dagli studi classici, Stavros Xarchakos). Il nome stesso della formazione guidata da Fricke, che rimanda al Libro della Comunità dei Maya, ricorre in Fata Morgana, in cui la critica Lotte Eisner legge alcuni passaggi dal testo sacro su immagini di paesaggi desolati nordafricani. Se si considera che in Anche i nani hanno cominciato da piccoli (1970) Fricke compare tra i credits senza aver prodotto musiche originali, fu con Aguirre, furore di Dio (1972) che il sodalizio musicale e registico ebbe realmente inizio: il tema principale si ode già nei titoli di testa, con il Moog, il mellotron e l’organo suonati da Fricke a misticheggiare le immagini del Rio delle Amazzoni in turbinante ribollio e poi delle montagne coperte di nebbia, dal cui fianco la spedizione di Pizarro scende in singola fila alla faticosa ricerca di El Dorado.

In congiunzione con la musica di Fricke, il cui afflato cosmico-spirituale era già andato pienamente dispiegandosi nei primi due album della band, e in particolare nel secondo, In Den Garten Pharaos, uscito l’anno prima della distribuzione del film, le immagini di Herzog si caricano di ulteriori significati, accompagnando i discorsi a lui cari sull’esperienza estatica della natura e sul declino della civiltà occidentale. In Aguirre (come in gran parte dei film di Herzog e in tutti quelli musicati dai Popol Vuh) la musica è fondamentale per “stratificare” la verità, per rendere giustizia alla sua componente più mistica, sconvolgente, ineffabile, per raggiungere quella verità estatica evocata nel manifesto artistico herzoghiano. Cos’altro è la musica se non un ulteriore processo di «costruzione, immaginazione e stilizzazione», di edificazione, di messa in forma, che va a sovrapporsi, ad aggiungersi e allo stesso a contrappuntare il reame del visivo? 

In questo senso le musiche di Fricke e le immagini di Herzog vengono dalla stessa matrice, dalla spiritualità, dalla trascendenza, dal desiderio, cioè etimologicamente, dalla “mancanza delle stelle” e dalla conseguente tensione verso di esse, verso il cosmo e le sue infinite forme e rappresentazioni. E allo stesso tempo seguono parabole differenti: la musica di Fricke che proprio a partire dall’anno di uscita di Aguirre si eleva in preghiera, sempre più diretta ad esprimere la fede cristiana che il musicista tedesco riconosce con crescente convincimento come sua vera identità spirituale, anche se aperta ad influenze esotiche (Hosianna Mantra, terzo disco dei Popol Vuh, considerato dai più il capolavoro del gruppo, è a tal proposito paradigmatico), il cinema e il credo di Herzog che continua invece a spaziare in modo più corsaro e ambivalente tra cielo e abisso, tra salvezza e dannazione, tra materia e spirito, guardando al mondo con una religiosità da razionalista, spinoziana. 

È proprio con Aguirre che i Popol Vuh, fino a quel momento conosciuti da pochi intenditori come esponenti della nuova Kosmische Musik tedesca, raggiungono la notorietà transnazionale, che sarà poi consolidata e ampliata grazie alla presenza delle musiche di Fricke in quasi tutti i film più rappresentativi e internazionalmente riconosciuti della filmografia herzoghiana degli anni Settanta e Ottanta, da L’enigma di Kaspar Hauser (1974) a Cobra Verde (1987) passando per Cuore di vetro (1976), Nosferatu, il principe della notte (1978) e, soprattutto, Fitzcarraldo (1982). Diventa quindi impossibile immaginare il Nuovo Cinema Tedesco senza il legame con quello che sarebbe stato poi definito krautrock e che per gli spettatori e gli ascoltatori degli anni ‘70 era, molto più semplicemente, la scena musicale psichedelica della controcultura tedesca. 

Se il krautrock si può definire come un esperimento musicale finalizzato alla ricerca di una nuova identità per la Germania del secondo dopoguerra, lo stesso può dirsi, sul piano delle arti audiovisive, del Nuovo Cinema Tedesco, che con le avanguardie sonore di quegli anni condivide il rigetto per l’adesione acritica al modello anglo-americano e il tentativo di avviare una nuova ri-territorializzazione culturale nazionale, basata su una propria libera ed originale bildung. Gran parte dei musicisti kraut non ha particolari conoscenze o esperienze nell’ambito del rock and roll e della musica popolare occidentale ma viene dal mondo della musica eurocolta, dal jazz, dalla classica o dall’avanguardia (si pensi al ruolo di Stockhausen, ad esempio), e si propongono di applicare i principi di questi linguaggi più strutturati, accademici e intellettuali, al sound impulsivo e viscerale che genericamente va sotto il nome di rock. E nessuno ha integrato la musica tedesca di quel periodo nel proprio cinema in modo più iconico, memorabile di Herzog, se si considera l’importanza e la notorietà planetaria delle opere che si sono avvalse delle composizioni di Fricke (Wenders lavorò principalmente con il compositore Jürgen Knieper e, fatta eccezione per il contributo di un gruppo poco noto come gli Improved Sound Limited alla colonna sonora di Nel corso del tempo, l’unica collaborazione di quegli anni con un gruppo kraut di una certa fama fu quella con i Can per Alice nelle città, mentre Fassbinder lavorò perlopiù con Peer Raben e gli Amon Düül II fanno capolino soltanto per un intermezzo in uno dei suoi primi lavori televisivi, Il viaggio a Niklashausen del 1970).

La Germania Ovest degli anni della contestazione era un vero e proprio laboratorio d’avanguardia artistica, per ragioni e con modalità del tutto simili a quanto era già successo alla Repubblica di Weimar negli anni ‘20 e ‘30, dopo la fine del primo conflitto mondiale e prima della definitiva affermazione della dittatura nazista. In entrambi i casi a muovere le energie è la necessità di scollarsi di dosso il passato e l’arte e la cultura non possono che alimentarsi e trarre forza, vitalità e potenza espressiva dalla feconda nevrosi generata dalle inquietudini e le aspirazioni tipiche dei momenti di profonda trasformazione.

Herzog e Fricke sono le due facce di un Giano bifronte, espressioni di una stessa divinità del passaggio, delle soglie, che condividono lo stesso corpo, la stessa origine e radice, ma finiscono, nel tempo, per guardare in direzioni diverse; senza mai, tuttavia, separarsi davvero. Herzog non condivide la svolta religiosa dell’amico musicista, eppure continua a trovare nelle sue composizioni sonore il materiale ideale per aggiungere strati di espressione, di forma, di senso, alla verità estatica che permea i suoi film. Poco importa, dunque, se la svolta cristiana di Fricke lo porta ad abbandonare il Moog, di cui era stato tra i primissimi entusiasti possessori in Germania, per tornare agli strumenti della tradizione acustica europea e indiana (pianoforte, chitarra, oboe, clavicembalo, corno inglese, tambura, sitar) nel tentativo di ripulire il sound da quelle che giudicava ormai inutili sofisticazioni intellettual-musicali device driven: non sono certo gli oscillatori, i potenziometri e i modulatori ad anello ad interessare ad Herzog, né il timbro elettronico, quanto piuttosto la profonda ieraticità, il misticismo delle creazioni dei Popol Vuh.

L’album che contiene la colonna sonora di Fitzcarraldo, l’altro grande film ambientato nella foresta amazzonica, uscito dieci anni dopo Aguirre, ne è l’assoluta conferma: oltre a due delle “canzoni tantriche” di Die Nacht der Seele (come definite dal sottotitolo del dodicesimo album dei Popol Vuh) e a quattro estratti di altrettanti “canti scenici” (un altro sottotitolo) presi dal successivo Sei still, wisse ich bin, si trovano arie tratte dall’Ernani e dal Rigoletto di Verdi, da Pagliacci di Leoncavallo, dalla Bohème di Puccini, da I puritani di Bellini e passaggi dal poema sinfonico Morte e Trasfigurazione di Strauss. E questo non avviene certamente per prette ragioni diegetiche, ovvero per l’insana passione che Brian Sweeny Fitzgerald nutre per l’opera lirica e le performance tenorili di Enrico Caruso, ma per traslare sul piano musicale, dunque filmico, audiovisivo, la dialettica natura vs cultura, lì dove il sound dei Popol Vuh rappresenta il suono circolare ed eterno della foresta (a cui Aguirre opponeva il racconto scritto, mentre Fitzcarraldo il grammofono) e l’opera in musica la magniloquente hybris dei colonizzatori europei.

Dov’è che si incontrano la musica lirica e i Popol Vuh, l’Europa otto-novecentesca del melodramma e le terre fumose, esotiche, di un cosmo indefinito, che Herzog e Fricke hanno messo in immagini e suoni per tutta la loro vita? Nei cori, probabilmente, nella capacità che le voci umane hanno, sia all’unisono che nella mescolanza polifonica, di evocare i fantasmi del tempo e dello spazio pur mantenendo la loro acustica origine carnale, di sfiati risalenti da gabbie toraciche, diaframmi e laringi. Quale mezzo migliore, nella sua duplice natura umana e divina, profana e sacra, dal registro grave o acuto, materialmente basso o celestialmente alto, può convogliare l’idea di una verità estatica, ancorata alla profondità della materia ma tesa verso l’infinito, se non la voce umana? Fricke stesso, che ha utilizzato moltissimo i cori nelle sue composizioni, come si può evincere ascoltando le colonne sonore di Aguirre e Fitzcarraldo, decise di tralasciare il Moog anche perché si imbattuto nella voce del soprano coreano Djong Yun, figlia del compositore Isan Yun, sostenendo di aver finalmente trovato il suono che aveva provato a ricostruire per tanti anni con il synth.

Eccoci dunque tornati anularmente all’inizio, al coro sacro ortodosso di Into the inferno. Sia Fricke e molti musicisti kraut che Herzog credono nell’estasi, nello slancio verso le stelle, nell’illuminazione come unica via per il disvelamento, la caduta del velo di Maya, l’aletheia degli antichi greci e di Heidegger. L’uno attraverso il cinema, l’altro attraverso la musica hanno cercato di colmare questa dolorosa distanza dalle stelle, questo desiderio, di ricostituire un’unità tra apollineo e dionisiaco, l’unità del tutto, l’Uno che i sacerdoti egizi insegnarono a Pitagora e che rappresentavano con il geroglifico della parola Ra, che richiama alla mente un altro grande gruppo musicale tedesco, tra i principali protagonisti della scena kraut, gli Ash Ra Tempel. È in questo de-siderio, in questo cielo che separa la vita sulla terra dalle stelle della galassia che si incontrano la musica cosmica dei Popol Vuh e la verità estatica di Herzog.

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